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lunedì 2 marzo 2020

Paradigmi

[E] Per la comprensione completa di questo pezzo è utile la lettura della mia Epitome (V. 1.5.0 "Coronavirus").

Sono un po’ rimasto indietro con Le origini psicologiche della diseguaglianza di Chiara Volpato: ho letto poco in generale ed, essendo stanco, ho dato la precedenza a un giallo (*1).

Però un paio di giorni fa ho riletto qualche nuova pagina e mi sono imbattuto in un concetto interessante: a dire il vero lo devo ancora ruminarlo per bene per capirne pro e contro ed è proprio questo lo scopo di questo pezzo.
Il motivo del mio interesse è l’approccio totalmente differente dal mio in alcune definizioni basilari: ma prima di proporre dei confronti voglio riassumere quanto letto.

In psicosociologia ci sono due metodi per stabilire la classe sociale di una persona: il metodo SES (Status Socio-Economico) propone dei parametri oggettivi (reddito, livello di istruzione, prestigio del lavoro) e il metodo SSS (Status Sociale Soggettivo) che invece si basa su un’autovalutazione del soggetto.
Il vantaggio del SES è la sua oggettività ma anche il SSS ha il pregio di cogliere particolari sfumature che soltanto chi vive la propria vita può conoscere e considerare.
Nel complesso i due sistemi danno risultati simili con curiose sfumature di applicazione e utilità (*2).

Il mio approccio, quello che uso nella mia teoria dell’Epitome, è completamente diverso. Innanzi tutto io non parlo di classi sociali ma di gruppi dove il singolo gruppo è caratterizzato da uno specifico ruolo e funzioni ([E] 3.1 e 3.2), che alla fine si riducono a un aspetto culturale ovvero a un insieme di protomiti ([E] 2.3). A ogni gruppo così definito applico poi dei criteri “oggettivi” (*3) per individuarne il grado di apertura (“aperto” o “chiuso”) e il grado di autonomia (“autonomo” e “subordinato”) ([E] 3.2).
I gruppi chiusi e autonomi corrispondono ai poteri forti, ovvero ai “parapoteri”, quelli aperti e subordinati sono i poteri deboli mentre le altre due combinazioni rimaste, i gruppi aperti e autonomi e i gruppi chiusi e subordinati, li definisco come poteri medi ([E] 4.1 e 4.2).
Ma che relazione vi è fra questi gruppi/poteri e le classi sociali così come le intendiamo? È quello su cui sto riflettendo: i membri dei poteri più forti tendono ad appartenere a classi sociali elevate mentre quelli dei poteri deboli appartengono alle classi sociali più basse. Ma i membri dei poteri medi corrispondono anche a classi sociali intermedie? Può darsi ma credo che in questo caso la relazione sia più sfumata. A intuito direi (ma potrei cambiare idea nei prossimi ore/giorni/mesi) che la tendenza culturale della società spingerà a riconoscere come appartenenti alle classi medie chi appartiene a poteri medi ma che ci potrebbero essere quindi dei piccoli sfasamenti di percezione dovuti alla lentezza con cui gli epomiti ([E] 6.2) si aggiornano nel complesso della popolazione.
Il problema è che il concetto di classe sociale è fortemente legato al reddito mentre nella mia definizione di gruppo tale dimensione non è neppure menzionata.
Del resto la mia teoria vuole essere universale e non applicabile solamente a società (come quelle moderne) dove tutto è valutato col metro del denaro.
Semmai, come spiego nell’Epitome, la ricchezza è un risultato del gruppo di appartenenza: i gruppi più forti, senza l’intervento di fattori esterni, tenderanno ad accrescere la propria forza a discapito dei gruppi medi e deboli ([E] 5.5, 5.11 e 5.12): e la forza nel mondo moderno è essenzialmente denaro.
Anche l’uso del livello di istruzione non mi sembra un criterio universale per valutare una classe sociale: pensiamo al basso medioevo. I nobili che appartenevano alla classe sociale più elevata erano spesso analfabeti a differenza dei loro segretari, spesso religiosi, che però appartenevano a una classe sociale molto più bassa.
Insomma nel complesso la definizione SES non mi convince molto: suppongo che invece la SSS sia più corretta (*4).
Non ho ancora accennato alla dimensione del “prestigio del lavoro” del metodo SES: su questa sono d’accordo. Alla fine essa infatti corrisponde al “ruolo” del gruppo che si concretizza nell’unione dei protomiti che lo definiscono dall’esterno e dall’interno, ovvero volendo dal “prestigio” di una professione.



Nel frattempo sono uscito per fare varie commissioni. Durante l’attesa in una sala d’aspetto, ho letto qualche ulteriore pagina de La democrazia greca dall’800 al 400 a.C. e, con la solita serendipità che mi “perseguita”, mi sono imbattuto in un esempio significativo: ovvero come l’assemblea del popolo regolamentata da Solone si sia poi potuta trasformare nella democrazia ateniese. Così come l’abitudine e la consuetudine determinano la morale ([E] ) allo stesso modo possono influenzare altri epomiti come quelli che definiscono i ruoli. La regolamentazione dell’assemblea popolare, sebbene inizialmente con scarsi poteri (probabilmente di ratifica simbolica delle decisioni dell'areopago), ha portato ha una trasformazione della visione del suo ruolo che, col tempo, ne ha amplificato l’importanza in una specie di circolo virtuoso.
Analogamente mi sono persuaso che i gruppi/poteri così come li ho definiti nell’Epitome guidano e determinano le relative classi sociali. A una variazione di forza di un gruppo/potere corrisponderà, magari con un ritardo di decenni per il mutamento nella percezione del ruolo, quasi immediatamente per la variazione del reddito, e con una generazione di ritardo per l’istruzione (che si concretizzerà nei figli), lo spostamento dei suoi membri su o giù, lungo la scala sociale.
Adesso mi sembra decisamente ovvio.

Mi si potrebbe obiettare: “Ecco il solito KGB! Ha scoperto che la base della sua Epitome è fragilissima e, invece di ammetterlo, afferma di aver ragione lui mentre gli esperti del settore hanno torto: dovrebbe limitarsi a scrivere di quel che sa o, meglio, a starsene zitto!”
In generale potrei semplicemente ribattere che ho sempre scritto/affermato le mie idee quando mi sembrano valide senza la pretesa di considerarmi assolutamente nel giusto (vedere, per esempio, l’Introduzione dell’Epitome) e che nessun dottore prescrive ai propri pazienti di leggermi: quindi se qualche lettore pensa che io scriva solo sciocchezze può semplicemente evitare questo ghiribizzo. Capisco perfettamente e non me ne offendo.
Nel caso più specifico credo che queste scienze sociali abbiano poche certezze assolute: probabilmente più prospettive diverse possono convivere ed essere anzi più o meno utili per applicazioni diverse (*5).
Ma in questo caso è la Volpato stessa che mi viene in soccorso. Cito: «...Dietze e Knowles (2016) hanno sviluppato quella che definiscono una misura della classe sociale basata sull’appartenenza di gruppo, partendo dall’assunto che il significato dato all’appartenenza di classe sia un significato culturale, legato quindi al gruppo» (*6). Che, in estrema sintesi, è anche il mio approccio. Il mio sistema epistemico è quindi diverso e minoritario ma ciò non significa che sia sbagliato o privo di significato…

Conclusione: e da qui vedo molti spunti per aggiustamenti nella mia Epitome...

Nota (*1): di solito neppure mi piacciono ma questo è di un autore locale ed ero curioso di vedere come scriveva…
Nota (*2): per esempio negli USA, con una cultura basata sull’indipendenza, il sistema SSS risulta essere più accurato; il contrario è vero in Giappone che ha una cultura basata sull’interdipendenza e nella quale i giudizi altrui hanno una maggiore importanza.
Nota (*3): relativi al livello di dettaglio che si sta analizzando…
Nota (*4): dovrei conoscere nei dettagli quali sono i criteri di autovalutazione suggeriti al soggetto per determinare la propria classe sociale di appartenenza: ovvio che se si suggeriscono denaro e istruzione si può ottenere una distorsione del risultato simile a quella del metodo SES.
Nota (*5): per esempio la Volpato spiega che la stragrande maggioranza delle ricerche di psicosociologia si basano su un campione di studenti universitari statunitensi ai primi due anni di studio: bisogna quindi andare cauti a dare valore universale a queste ricerche!
Nota (*6): tratto da Le radici psicologiche della diseguaglianza di Chiara Volpato, (E.) Laterzia, 2019, pag. 93.

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