Come (forse) sapete sono molto scettico sui “controllori dei fatti” (i factcheckers): ne scrissi a giugno 2021 in Se lo censurano deve essere vero ma anche in tempi “non sospetti” in Pagella alle pagelle del febbraio 2013.
Si tratta di uno di quegli argomenti che a me appaiono ovvi ma che probabilmente non lo sono per tutti. Mi viene naturale e istintivo mettere in dubbio tutto quanto viene detto: intendo dire che ho sempre acceso un filtro del tipo “che interesse ha XXX ad affermare YYY?”.
Non è niente di straordinario quando andiamo da un concessionario di auto per acquistare una vettura lo sappiamo che tutto quello che ci dice è orientato a vendercela, no? Altro discorso è se un amico esperto, che non ha parenti/conoscenze nel settore, ci consiglia un particolare modello. La credibilità di una persona dipende quindi non solo dalle sue conoscenze ma anche dai suoi possibili scopi che non sempre sono compatibili col dire l’assoluta verità.
Quindi anche riguardo ai “controllori dei fatti” (CdF) mi è naturale chiedermi che interesse hanno nello stabilire se un’affermazione è una bufala o no. Il punto di partenza è sapere chi li paga (*1) perché i loro interessi coincideranno in prima approssimazione con quelli del loro datore di lavoro. Poi non mi sto a ripetere (v. Se lo censurano deve essere vero) ma se fossero volontari non retribuiti allora non potrebbero essere esperti di tutto né affidabili.
Ma questo mio atteggiamento, che a me pare semplice buon senso, non lo applico solo ai CdF: nel febbraio del 2011 scrissi il pezzo Libertà di spettegolare. L’argomento erano le pagelle sulla libertà di stampa create da Freedom House e che, all’epoca, vennero rilanciate da media e reti sociali: l’Italia infatti, con appena 31 punti, era finita nella fascia dei paesi con semi libertà di stampa.
La maggior parte dei miei conoscenti (tutti?) presero per buona questa pagella: tutti i giornali/tivvù la sventolavano come prova provata e, del resto, veniva da un’organizzazione chiamata “Freedom House”, cioè “Casa della Libertà”: come si poteva diffidarne? E poi il fatto che usassero un punteggio faceva pensare a qualcosa di analitico, scientifico e oggettivo: sicuramente dei buoni scienziati avevano scoperto la formula della libertà e Freedom House la stava applicando in maniera disinteressata…
Questa mi immagino sia la logica delle altre persone ma, come detto, non è la mia: non sto a ripetere quanto scrissi in Libertà di spettegolare ma in pratica scoprii che Freedom House è finanziata da Washington: ovvio quindi che ne difenda e tuteli gli interessi.
All’epoca pensai che l’Italia, come alleata degli USA, fosse probabilmente al riparo da tentativi di manipolazione da parte di Freedom House: come ero giovane e ingenuo!
Mi divertii a stimare anch’io la libertà di stampa in Italia usando gli stessi riferimenti e ottenni risultati simili che placarono, pur senza cancellarli, i miei dubbi.
Ma, come mi sono poi reso conto scrivendo l’Epitome, nel 2011 l’Italia e la maggioranza degli altri paesi europei non erano più considerati alleati ma semplici partner commerciali: uno stato da finire di colonizzare (il processo era già iniziato a metà degli anni ‘90 con Prodi) economicamente e che per questo doveva piegarsi alle logiche dei parapoteri economici globali.
Lo status di semi libertà di stampa era probabilmente stato causato da considerazioni inverse alle mie: l’informazione contro Monti e le sue politiche, che a me sembrava buona, era probabilmente considerata cattiva da Freedom House e vice versa!
Su altre fonti in rete di cui non sapevo valutarne l’attendibilità scoprii anche che aveva (a aveva avuto) dei legami con la CIA: particolare che, se vero, ne metteva fortemente in dubbio gli scopi reali...
Ma torniamo al 2021 e facciamo un passo indietro nel 1987 (!).
“La fabbrica del consenso” di Noam Chomsky ed Edward S. Herman, (E) IlSaggiatore, 2014, trad. Stefano Rini è un libro superato per gli eventi che descrive (tutti antecedente al 1987) ma la sostanza è attualissima. Il punto di partenza, a cui si arriva attraverso la comparazione di dati abbastanza tediose, è che negli anni ‘80, negli USA i principali media fanno propaganda a sostegno delle tesi del governo: in particolare i paesi “nemici” sono mostrati in un’ottica sempre negativa mentre a quelli alleati accade l’inverso. Quando la situazione è “calda” la verità può venire addirittura ribaltata: il bianco diviene nero e il nero bianco.
Ma nei decenni precedenti i media erano diversi, no? Dopotutto è “risaputo” che hanno fatto perdere agli USA la guerra in Vietnam abbassando il morale della popolazione statunitense e facendo propaganda pacifista. Oppure non è il caso Watergate, che portò alle dimissioni di Nixon, emblematico di come anche la più alta carica politica americana sia controllata e possa essere fatta cadere dai media?
In verità secondo Chomsky non è così: di nuovo analizzando i dati Chomsky mostra che i principali media iniziarono a divenire contrari alla guerra solo quando alcuni grandi poteri lo divennero a loro volta, ovviamente non per considerazioni morali ma a causa dell’alto costo (in dollari!) bellico.
Analogamente anche il caso Watergate emerse perché molti grandi poteri erano contro Nixon a partire, banalmente, dal partito democratico.
Si tratta del meccanismo che ho spiegato in [E] 9.6 dove scrivo che anche gli intellettuali organici (categoria nella quale faccio rientrare anche i giornalisti) possono essere utili alla verità quando la brandiscono, su ordine del loro parapotere di riferimento, contro un altro.
Chomsky fa poi notare che scandali potenzialmente ben più gravi sono passati sotto silenzio perché colpivano entità che non avevano nessun grande potere dalla loro parte.
Il torto fatto a una persona comune non fa notizia, quello fatto a un grande potere diviene uno scandalo.
In verità Chomsky, questo emerge dall’altro suo libriccino che ho letto, crede che i media statunitensi sono stati usati come strumento di propaganda e di convincimento della popolazione a partire dalla prima guerra mondiale dove in circa un anno si convinse un popolo sostanzialmente pacifista a entrare con entusiasmo in guerra.
Ma, se non è vero, come mai si pensa che i media abbiano fatto perdere la guerra col Vietnam agli USA?
Il “merito” è in questo caso della Freedom House la quale produsse negli anni ‘70 un’opera “monumentale” che dimostrò l’effetto nefasto della stampa USA sul morale della popolazione: inutile dire che Chomsky smonta una a una le varie affermazioni che, anzi, appaiono grottesche e ridicole quando si scopre come ribaltino arbitrariamente i fatti. E oltretutto non mancano le contraddizioni interne…
Per Chomsky la Freedom House divenne una sorta di cane da guardia dei media che abbaiava e mordeva quelle testate e i giornalisti che non si impegnavano abbastanza nel sostenere con entusiasmo, senza patriottismo cioè, tutte le posizioni ufficiali del governo USA.
Vabbè, il punto è che la Freedom House (alla quale è dedicata un’intera appendice) è un organo al servizio degli interessi politici di Washington: tutte le sue affermazioni, comprese le pagelle sulla “libertà di stampa”, vanno quindi valutate in questa ottica.
Conclusione: in altre parole il mio scetticismo del 2011, quando della Freedom House non sapevo niente, era pienamente giustificato. La lezione per il futuro è che i CdF saranno un abominio ancor più grottesco nella loro pretesa di indipendenza e imparzialità.
Nota (*1): da questo punto di vista è illuminante “The Framers’ coup” dove la logica che i funzionari sono principalmente fedeli a chi li paga è considerata un’ovvietà: questo principio è quindi costantemente tenuto presente in tutta la stesura della costituzione americana.
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