Da qualche giorno ho iniziato a leggere “The fate of Rome” di Kyle Harper, (E.) Princeton University Press, 2017.
Da tempo lo seguivo: in italiano il volume era troppo caro e così l’ho comprato in inglese.
In realtà ero abbastanza scettico: una tendenza comune degli storici, ma in realtà degli uomini in genere, è quella di giudicare il passato con gli occhi del presente. In particolare le problematiche più attuali del presente vengono proiettate nel passato.
Per esempio da buon esponente dell’illuminismo il Gibbon diede la principale colpa della caduta dell’impero romano all’influenza del cristianesimo; agli inizi del XX secolo era più in voga un’interpretazione legata al dinamismo etnico, alla superiorità delle razze barbare (germaniche) etc.
Questo vale non solo per la caduta dell’impero romano ma per qualsiasi evento storico di complessità non banale: per esempio anche la rivoluzione francese è stata interpretata diversamente nel corso dei secoli…
Evidentemente nel 2017 la questione del cambiamento climatico era cospicua: in effetti nel sottotitolo c’è scritto “Climate, disease, & the end of an empire”. Si accenna cioè anche alla malattia: ma dal testo è chiaro che la malattia è condizionata dal clima (e altri fattori).
Probabilmente se l’autore avesse scritto oggi quest’opera l’accento sarebbe stato maggiormente spostato sulla pandemia…
Comunque già nel 2019 espressi varie perplessità nella parte finale di Caldo o freddo?.
Fortunatamente il libro è invece scritto molto bene e scorre veloce: mentre su “The framers’ coup” avanzo faticosamente di poche pagine per volta riempiendo i margini di note, qui leggo veloce evidenziando pochissimo. Sarà che conosco decentemente l’argomento e quindi il contesto mi è già noto e chiaro e l’idea di fondo: l’impatto del cambiamento climatico e delle pandemia è di facile comprensione.
L’autore porta molti dati, alcuni dei quali recentissimi ottenuti con la ricostruzione del clima antico e delle malattie attraverso molteplici forme di nuove tecnologie (*1) e ricerche, che mi hanno convinto della verità del cambiamento climatico nei secoli indicati dall’autore e dell’epidemia di peste Antonina, probabilmente vaiolo, che attraversò l’impero fra il 165 e il 172 d.C.
Quello che ancora l’autore non è riuscito a ottenere è convincermi del peso perspicuo di questi elementi su quelli sociali ed economici.
Per esempio l’ipotesi del vaiolo non è nuova e con essa veniva spiegato l’abbandono dei campi italiani nel tardo impero ma, ricordo, ciò era stato spiegato con motivazioni puramente economiche: era più economico importare il grano dal nord Africa piuttosto che coltivarlo in Italia…
Nel medioevo poi la peste bubbonica uccise una percentuale della popolazione europea, se non erro, del 50 o 60%. Negli anni successivi a queste decimazioni però si ebbe una forte crescita dovuta all’aumento di cibo disponibile per tutti: la mancanza di mano d’opera portò a un aumento dei salari (una piccola redistribuzione economica). Secondo alcuni storici il rinascimento è in parte frutto delle stragi provocati dalla peste nei secoli precedenti.
La peste Antonina invece dovrebbe aver ucciso dal 2 al 33% della popolazione con l’autore che opta per un 10-20% a seconda dei luoghi.
Da una parte questi valori sono estremamente minori del 50-60% medioevale e, soprattutto, non si affronta l’argomento delle maggiori risorse disponibili negli anni successivi e i risultanti effetti sociali e demografici. Non è che l’autore consideri questo aspetto poco rilevante: semplicemente non lo considera (*2).
L’altro elemento di fondo che mi lascia perplesso è la concezione storica dell’autore.
Io mi resi autonomamente conto da solo, mi sembra ai tempi del liceo ma forse dopo, che pensando all’impero romano è facile perdere di vista lo scorrere del tempo: la vita dell’impero è talmente ampia che gli eventi del 310 sembrano immediatamente precedenti a quelli del 340 e, per questo, vengono posti in relazione diretta.
Si dimentica che 30 anni sono un po’ più di una generazione e che in questo periodo di tempo ci possono essere cambiamenti culturali significativi che hanno un impatto molto maggiore dell’influenza degli eventi accaduti tre decenni prima.
Invece l’autore salta tranquillamente da eventi accaduti a secoli di distanza e li considera fortemente correlati fra loro ignorando le generazioni che li separano.
Non è un atteggiamento da storico questo e in effetti l’autore, da quel che leggo nella breve biografia presente sulla copertina è un professore di “Classics and letters”.
Questo spiega la sua prospettiva molto innovativa ma mi allerta anche sui possibili rischi: esattamente qualcosa di analogo alla visione rivoluzionaria della stesura della costituzione americana suggerita dal giurista autore di “The framers’ coup”.
Non so se sono riuscito a spiegare bene il pericolo di interpretare eventi avvenuti a molti decenni di distanza come se fossero estremamente ravvicinati mentre, per le persone che li hanno vissuti, erano lontani: ci vuole una certa abitudine alla storia, la capacità di calarsi nella prospettiva delle persone del tempo, che non è immediata per tutti…
Conclusione: comunque, come ho già spiegato, la lettura del libro è molto piacevole. Non mi stupirei se terminassi di leggerlo prima di altri che ho incominciato da tempo!
Nota (*1): per esempio si sta iniziando ad analizzare geneticamente i resti ossei del periodo riuscendo in taluni casi a identificare anche le cause della morte.
Nota (*2): sono a pagina 127: magari lo farà in seguito...
L'esempio di Benjamin Franklin
2 ore fa
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