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sabato 10 aprile 2021

Il lumacone

[E] Attenzione! Per la comprensione di questo pezzo è necessaria la lettura della mia Epitome (V. 1.7.1 "Sherlochulhu").

Leggo lentamente e un po’ me ne vergogno: dovrei dedicare più tempo alla lettura e invece sono distratto da tutte le leccornie che la Rete fornisce. Vabbè: mi consolo dicendomi che ho bisogno di tempo per far sedimentare i miei pensieri. Certamente ciò è vero ma nondimeno potrei leggere di più, magari i libri che non stanno “sedimentando”!

Comunque ieri ho letto altre 4 o 5 pagine di “Eros e civiltà” di Marcuse e adesso voglio già scriverci un altro pezzo…

Marcuse fa un’interessante considerazione che si riallaccia a quello che sto leggendo di Hobbes.
Parto da quest’ultimo. Hobbes alla base della comune convivenza pone un patto sociale dove la popolazione affida una parte (importante!) della propria libertà al “sovrano” (*1) affinché esso possa proteggerla. Fra le varie considerazioni di Hobbes c’è anche quella che è normale che molti abbiano poco perché le risorse naturali sono limitate: da questo ne consegue che il “sovrano” debba intervenire regolando le leggi nell’interesse del bene comune. Il punto è: leggi, cioè costrizioni, per sopperire alla scarsità di risorse.

Marcuse giustamente osserva che la tecnologia ha il potere di moltiplicare le risorse: un solo contadino col trattore è più produttivo di venti contadini con i loro buoi. Lo stesso si applica alla capacità di produzione della catena di montaggio rispetto al singolo artigiano.
Conclude quindi Marcuse: «La povertà che continua a regnare in vaste zone del mondo, non dipende più principalmente dalla povertà delle risorse umane e naturali, ma dal modo nel quale queste ultime sono distribuite e utilizzate» (*2)
Questo è oggi più vero che mai: è esatto, come cinguetta Gretha, che la sovrappopolazione e la scarsità di risorse (ovviamente due facce della stessa medaglia) portano a loro volta a tutta una serie di problemi ecologici e non solo, ma sarebbe ancor più importante sottolineare che il problema di fondo è un altro e sta tutto nella sperequazione della ricchezza.
Per il mio punto di vista su questa problematica rimando al fondamentale [E] 14.7 e, magari, al recente Gli eventi del XX secolo.

Il passaggio successivo di Marcuse non è altrettanto corretto: di nuovo mi pare vittima delle tendenze del tempo e queste lo portano, pur partendo da osservazioni giuste, a conclusioni errate.
Marcuse giustamente osserva che la maggior abbondanza di beni porta la popolazione ad avere nuove esigenze (tipo il televisore o il frigorifero) e desideri. Sbaglia però nel ritenere che la popolazione finisca per lavorare sempre meno: si immagina cioè una redistribuzione della ricchezza da anni ‘50 e ‘60 proiettata nel futuro. Sfortunatamente sappiamo com’è andata: l’avidità dei poteri economici combinata col declino dell’efficacia della democrazia ha portato, dagli anni ‘80 e ‘90 a una crescente diseguaglianza economica.
La popolazione quindi non lavora meno di prima ma, forse, di più: questo anche perché l’evoluzione tecnologica ha fatto calare la richiesta di manodopera di basso livello e, complessivamente, la domanda di quella di livello più alto non ha compensato il calo della precedente.

Marcuse ipotizza poi che, essendo necessaria meno energia per lavorare, energia sublimata principalmente dal principio del piacere, l’uomo si ritrova con un surplus di energia creativa che deve essere sfogata in qualche maniera.
Ma la società per rimanere in piedi non può permettere troppa libertà o che il popolo abbia aspirazioni, magari anche solo spirituali, contrarie ai meccanismi che la mantengono solida perché se troppe rotelle, per quanto ciascuna di per sé insignificante, si inceppano alla fine potrebbe fermarsi l’intero orologio (*3). Ecco quindi la necessità di nuove imposizioni e coartazioni della libertà in funzione di limitazione delle tendenze centrifughe.
Scrive Marcuse: «Ma quanto più vicina è la possibilità reale di liberare l’individuo dalle costrizioni giustificate a suo tempo dalla penuria e dall’immaturità, tanto più grande diventa il bisogno di mantenere e di organizzare razionalmente queste costrizioni per evitare che l’ordine del potere istituito si dissolva. La civiltà deve difendersi contro lo spettro di un mondo che potrebbe essere libero.» (*4) (*5).

E proprio a questa diminuzione di libertà stiamo assistendo oggi (ovviamente con giustificazioni speciose supportate massicciamente dai media).
La conclusione è che la fase intermedia erroneamente predetta da Marcuse, quella della maggior energia disponibile derivante dal principio di Eros non più sublimata nel lavoro, ha un effetto analogo a quello che è effettivamente successo.
Ma cos’è effettivamente successo da quello che, mi immagino, sarebbe stato il punto di vista di Marcuse: a cosa porta la crescita diseguaglianza (e quindi dell’ingiustizia) magari unita a una disoccupazione massiccia?
Difficile dirlo: io ragiono in base alle mie leggi del potere che non hanno problemi a spiegare il fenomeno. Posso ipotizzare, ma dovrei pensarci di più per esserne sicuro, che si accumuli energia negativa o distruttiva: l’ingiustizia percepita rafforza il principio di Tanatos. Anche in questo caso la risposta della società, o meglio dei parapoteri che la controllano, è la stessa: aumentare le costrizioni e diminuire la libertà per cercare di tenerla sotto controllo. Ma è un circolo vizioso che non può funzionare indefinitivamente

Così mi immagino che la penserebbe Marcuse ma resto dell’idea che il suo sistema di interpretazione della società basato sui principi teorici di Freud sia debole e arbitrario: in pratica Marcuse con questa teoria si è cucito un modello perfetto per interpretare il suo tempo ma che riapplicandolo mezzo secolo dopo mostra immediatamente la sua debolezza teorica.

Conclusione: intendiamoci, la lettura della sua opera resta interessantissima e proficua come dimostra il numero e la frequenza dei pezzi con cui la commento.

Nota (*1): con “sovrano” Hobbes intende non solo un monarca ma anche un governo che abbia tutti i poteri.
Nota (*2): tratto da “Eros e civiltà” di Herbert Marcuse, (E.) Einaudi, 1968, trad. Lorenzo Bassi, pag. 127.
Nota (*3): lo so è una metafora imperfetta! Nella realtà basta che si inceppi il più piccolo ingranaggio che l’orologio smette di funzionare: ma mi sembrava che comunque l’immagine (con tanti rotismi ridondanti) rendesse bene l’idea! Forse avrei potuto usare una metafora basata sui binari di un treno: un solo sassolino su un binario viene schiacciato ma se i sassolini diventano troppi il treno rischia di deragliare…
Nota (*4): tratto da “Eros e civiltà” di Herbert Marcuse, (E.) Einaudi, 1968, trad. Lorenzo Bassi, pag. 128.
Nota (*5): questa ipotesi di Marcuse NON è peregrina e mi ha ricordato un passaggio di “Nascita dell’eresia” di Manteuffel. L’autore spiega che la Chiesa nel medioevo non aveva nulla in contrario ai santi o ai mistici che praticavano personalmente i principi della povertà e che vivevano solamente di preghiera ed elemosina. Essa reagiva però duramente quando questi stessi ideali venivano diffusi dai predicatori itineranti nella popolazione facendo proseliti: troppe persone che, ispirandosi a principi spirituali, avessero scelto una vita di preghiera avrebbero rischiato di mettere in crisi la società del tempo. Ho cercato e ritrovato (!) il passaggio che ricordavo: «Un’ideologia era infatti ritenuta eterodossa non tanto in funzione della sua sostanza quanto piuttosto dell’epoca e delle circostanze in cui era propugnata. […] Perché la chiesa non ha mai condannato il precetto evangelico della povertà volontaria. Anzi, è sempre stata benevola verso coloro che lo professavano, ma solo quando l’applicavano individualmente, senza farne oggetto di propaganda fra le masse. […] Ma il problema cambiava aspetto dal momento in cui questi principi cominciavano a essere diffusi tra i fedeli. Allora il precetto della povertà volontaria cessava di essere questione personale di uno o di un altro individuo, per divenire un problema sociale che poteva assumere implicazioni politiche.» tratto da “Nascita dell’eresia” di Tadeusz Manteuffel, (E.) Sansoni, 1975, trad. Davide Bigalli.

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