[E] Per la comprensione completa di questo pezzo è utile la lettura della mia Epitome (V. 1.4.0 "Versailles").
Ho letto appena una ventina di pagine del Manifesto del partito comunista (in totale sono una cinquantina) e ammetto di essere un po’ confuso. Mi chiedo se il problema è che fu scritto a quattro mani (Maex ed Engels): due persone, per quanto affiatate, la penseranno sempre in maniera leggermente diversa.
Probabilmente conta anche la giovane età dei due, 28 e 30 anni, quando gli ideali predominano sulla logica.
Intendiamoci: condivido moltissime idee a partire dalla lettura della situazione sociale dell’epoca e delle tendenze storiche. In particolare il globalismo (che in genere chiamano “cosmopolitismo”) guidato dalla volontà del capitale di avere nuovi mercati è attualissima: l’UE ne è un frutto evidente.
Non sono d’accordo nella semplificazione storica tutta incentrata sui mezzi di produzione: la mia teoria sui diversi tipi di gruppi è molto più generale, completa e corretta. L’interpretazione di Marx/Engels descrive benissimo la società del tempo ma si adatta male al passato e al futuro, il nostro presente.
Infine, e questo è l’aspetto più grave, condivido la lettura dei mali del tempo ma non la ricetta per curarli: l’abolizione della proprietà privata e la dittatura del proletariato.
I problemi derivanti dall’abolizione della proprietà privata sono innumerevoli e uno, forse il più critico, è pure presentato nel testo: senza la proprietà privata non ci sarebbe forse il pericolo che la pigrizia umana prenda il sopravvento? Perché infatti qualcuno dovrebbe impegnarsi al massimo se poi non ci guadagnerebbe niente al farlo?
La risposta di Marx ed Engels è una specie di sofisma: «Si è obiettato che con l’eliminazione della proprietà privata ogni attività cesserebbe e prenderebbe piede una pigrizia generale.
Se così fosse, la società borghese dovrebbe essere da tempo andata in rovina a causa della pigrizia; perché quelli che lavorano non guadagnano e quelli che qui guadagnano non lavorano.» (*1)
È una risposta che aggira il vero nocciolo della questione, la pigrizia sociale (un limite umano ben reale: v. Proletariato e democratastenia), la ridicolizza ed evita di controbattere. Di nuovo credo dipenda dall’età degli autori: prima i principi e poi la logica.
I punti altrettanto nebulosi e incerti sono molti ma quello di gran lunga più grave è l’incertezza di cosa si intenda per “borghesia”: problema non da poco visto che la prima parte dell’opera è intitolata “Borghesi e proletari” e tutta l’esposizione si basa sul confronto fra queste due parti sociali.
Nelle note (di Engels) è spiegato che con borghesia si intende chi controlla i mezzi di produzione che io ho “tradotto” con “chi possiede le fabbriche: capitalisti se sono grandi, o imprenditori se sono piccoli”.
Benissimo: però qualche paragrafo dopo sono considerati capitalisti anche il padrone di casa, il bottegaio, l’uomo del "banco dei pegni” e così via. Poi di nuovo si parla di borghesi intendendo gli industriali subito dopo però di nuovo si intende anche il piccolissimo proprietario e così via per tutto il capitolo. Chiaro che partendo con un’ambiguità così grande tutto il resto rimane ancor più fumoso e incerto: di nuovo predominano gli ideali sulla chiarezza espositiva.
Credo che una delle cause alla base di questa incertezza ci sia l’errore di dividere la società in solo due uniche classi, la borghesia e il proletariato, quando invece i gruppi che la compongono (almeno secondo la mia teoria!) sono innumerevoli. Quello che succede è che ai parapoteri, all’alta borghesia, vengono assimilati quelli che io considero i poteri medi. Per Marx quindi abbiamo da una parte il proletariato, potere debole, e dall’altra la borghesia (parapoteri o poteri forti) “rimpolpata” dai poteri medi (dal piccolo commerciante al contadino con il proprio podere).
Secondo la mia teoria invece in opposizione ai parapoteri vi è la democratastenia la quale è composta dai poteri medi insieme ai poteri deboli.
Capisco benissimo che, culturalmente, specialmente nel XIX secolo gli appartenenti ai poteri medi si sentissero molto più vicini, anche ideologicamente, ai parapoteri dell’epoca (*2). Per questo l’obiettivo di Marx avrebbe dovuto essere quello di far comprendere ai poteri medi di essere in realtà più affini al proletariato che all’alta borghesia (*3).
Invece Marx schierandosi contro i poteri medi ha regalato ai parapoteri degli alleati utili e potenti, in grado di controbilanciare con relativa facilità il proletariato, e ha così condannato il comunismo all’insuccesso.
Perché poi il comunismo, ponendosi in opposizione ai poteri medi, volendoli schiacciare come fossero parapoteri, finisce per combattere un’ingiustizia palese con un’ingiustizia più sottile, palliata da giustizia.
Ah! dimenticavo la “dittatura del proletariato”: sicuramente un’etichetta molto affascinante ed evocativa ma come realizzarla in pratica? Il sistema suggerito da Gramsci (circa 70 anni dopo il Manifesto) è chiaramente ispirato all’esperienza sovietica: si basa su una piramide di delegati che, partendo dai “soviet” locali, eleggono rappresentanti che a loro volta eleggono i propri rappresentanti e così via fino ad arrivare al “Soviet Supremo”.
Può funzionare un simile sistema? La mia teoria dice chiaramente che non è possibile: la legge della rappresentatività con le relative condizioni di rappresentatività imperfetta ([E] 5.8 e 11.4) afferma che, più livelli di distanza ci sono fra potere delegato e potere rappresentato e maggiore sarà la differenza fra i relativi obiettivi e interessi.
Già con un solo livello di delega, per esempio i cittadini che eleggono direttamente i propri rappresentanti in Parlamento, il sistema tende a funzionare male: aggiungere ulteriori livelli intermedi fra democratastenia e potere politico equivale a condannarsi a un totale insuccesso.
Conclusione: sicuramente ci tornerò a lettura ultimata ma per il momento il comunismo, sebbene motivato da ideali altissimi (l’uguaglianza e la giustizia fra gli uomini) mi pare vittima di grandi contraddizioni e incertezze. Paradossalmente ho la sensazione che il fortuito successo della rivoluzione russa abbia estremamente nuociuto alla causa del comunismo facendo apparire possibile, sostenibile e vincente un’utopia basata invece su logiche fallaci.
Ora (e questa idea necessiterebbe di un pezzo a sé stante) siamo in una fase storica in cui la caduta dell’URSS ha trascinato con sé non solo il comunismo ma anche gli ideali da cui questo prendeva spunto; al contrario l’unica ideologia ritenuta giusta e vincente è quella del liberismo sfrenato dove i ricchi divengono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri.
Ma è un’illusione storica! Gli ideali che il comunismo cercava maldestramente di difendere sono giusti mentre l’ideologia liberista, in cui si confonde effimero benessere con giustizia, è sbagliata.
Anche qui, per rendersene conto, non so quale abisso dovremmo toccare prima di iniziare a risalire: quanto palesi dovranno essere le ingiustizie prima di scuotere l’uomo comune dal suo torpore e indifferenza?
Nota (*1): tratto dal Manifesto del partito comunista di Karl Marx e Friedrich Engels, (E.) Feltrinelli, 2017, trad. Enrico Donaggio e Peter Kammerer.
Nota (*2): c’era la naturale tendenza ad aspirare a entrare a farne parte, a imitarla e a farne propri gli ideali.
Nota (*3): sicuramente non facile: bisogna considerare le condizioni di vita del proletariato del tempo (1848) dove, almeno in Inghilterra, si festeggia l’aver conseguito da poco il limite delle 10 ore di lavoro giornaliere e dove il lavoro minorile è ancora la norma. È facile immaginare che il bottegaio si sentisse molto più vicino, come stile di vita, a un ricco industriale che a uomini sfruttati come bestie.
L'esempio di Benjamin Franklin
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