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mercoledì 30 aprile 2014

Il giaguaro ghignante (3/3)

Mi avviai verso l'ingresso, non più nascosto nei panni dell'umile servetta, ma avvolto da tutta la maestà del mio potere che mi circondava come fosse un alone di fuoco. I soldati a guardia della porta della sala da pranzo mi guardarono a bocca aperta.
Il più giovane dei due vide la luce dei miei occhi e vi lesse la morte: dimentico di tutto lasciò cadere il fucile a terra e, impazzito per il terrore, scappò urlando sfondando una finestra. Non mi curai nemmeno di ucciderlo e fissai con curiosità il soldato più anziano. Capii che era una brava persona: la necessità lo aveva costretto a fare quello che aveva fatto. Non ne era fiero ma aveva avuto una famiglia da salvare. Ora mi guardò tremante come una foglia e mi puntò contro la pistola. Sapevamo entrambi che era un gesto futile: ne apprezzai il coraggio ma non potei comunque tollerare una tale insolenza.
Battei appena l'estremità della verga sul pavimento e il suo corpo esplose come fosse un palloncino scoppiato: le ossa e pochi resti sanguinolenti caddero al suo posto. Io risi: non avevo pensato che l'esplosione mi avrebbe completamente ricoperto di sangue e brandelli umani e lo trovai divertente.

Con un gesto della verga cercai di far aprire la doppia porta della sala da pranzo. Calcolai però male l'intensità della forza che controllavo: i battenti vennero scardinati insieme ad abbondanti pezzi di muro e scagliati lontano. Un uomo dall'altra parte della stanza venne colpito in pieno e morì senza nemmeno accorgersene.
Entrai nella grande sala fermandomi a osservarla dalla soglia: tutti mi guardavano con gli occhi sbarrati, nessuno pensò a reagire o a fuggire perché la mia ira mi aveva preceduto e aveva gelato i loro cuori. Su un tavolo alla mia destra vidi un vassoio pieno di frutta: ricordai di aver fame e raccolsi una mela che, nel silenzio generale, iniziai a mangiare guardandomi intorno.
Vidi che la maggior parte dei commensali era composta da una bandaccia di ufficiali, evidentemente gli uomini fidati del comandante, il suo stato maggiore. Uno sguardo mi bastò per capire che erano uomini capaci di tutto: che avevano più volte abusato del loro potere per il proprio interesse o per il proprio piacere. Qualcuno di loro aveva al proprio fianco una donna, qualche inserviente che serviva fra i tavoli era adesso inginocchiato sul pavimento e, su un palco da un lato, c'era perfino una graziosa schiava bianca (ma non una delle donne che conoscevo) che, suppongo, aveva intrattenuto gli ospiti ballando.
Per me non faceva differenza, le loro meschinità non mi interessavano: erano solo dei pulcini appena usciti dall'uovo. Esseri insignificanti. E io non venivo per punire i colpevoli o per liberare gli oppressi: venivo solo per il mio amore.

Ed Eleonora era là: una corta veste di bisso trasparente, che ne evidenziava più che nasconderne il seno, arrivava a ricoprirle solo parzialmente le gambe bianchissime che teneva ripiegate sotto di sé. Alle braccia e alle caviglie portava dei preziosi bracciali dorati mentre grandi piume colorate le adornavano i capelli biondi come fossero una corona. Era vestita come una schiava ma sapevo che era solo apparenza e che in realtà era una regina. Per lo stupore si era portata la mano sinistra a coprirsi la bocca dalle labbra ocracee mentre con la destra stringeva forte la mano del suo compagno.

Il suo signore, ma anche il suo primo suddito, non poteva che essere il colosso nero che avevo visto di sfuggita dalla finestra della soffitta sotto il tetto. Adesso avevo l'opportunità di studiarlo bene mentre finivo di mangiucchiare la mia mela: non era solo un uomo grande e grosso, vidi anche lineamenti nobili e uno sguardo intelligente e fiero sul suo volto. Amaramente pensai che Eleonora aveva fatto un deciso progresso rispetto all'anodino Roberto...
Lo scrutai negli occhi e gli lessi l'anima: vidi con disgusto il suo amore profondo e contraccambiato per Eleonora, ma questo l'avevo già capito da come si tenevano per mano senza bisogno della mia magia; piuttosto volli scoprire il motivo per cui lei non era ufficialmente la sua regina: Udan, questo era il suo nome, era un uomo pratico e politicamente non poteva, non ancora, permettersi di sposare una bianca; ma era capace di guardare lontano e aveva grandi capacità. Aveva in mente di ricostruire il mondo e sapeva come fare. Aveva un piano, delle intuizioni, la buona volontà e la pertinacia necessaria per realizzarlo: non amava la violenza ma non esitava a usarla per raggiungere i propri scopi, per quello che riteneva essere un bene superiore. E se ne assumeva le responsabilità: questo lo apprezzai.
In questi pochi secondi era in qualche modo riuscito a raccogliere il suo coraggio e ad alzarsi in piedi mentre tutti gli altri erano ancora paralizzati e atterriti dalla mia presenza. Sapevo già cosa avrebbe detto con la sua voce bassa e profonda: ormai lo conoscevo meglio di chiunque altro. Conoscevo tutta la sua vita, tutto ciò che aveva detto e fatto, le sue sconfitte (poche) e le sue (molte) vittorie. Era un grande uomo e io sarei stato orgoglioso di vivere la sua vita. Sapevo che mi avrebbe parlato della sua grande speranza per un futuro migliore, di ciò che avrebbe voluto ottenere, del suo amore per Eleonora, dei loro figli, già i loro figli...
Il peggio era che io sapevo che aveva ragione: vedevo chiaramente nelle possibilità e nei vortici del futuro che lui e i suoi discendenti erano la migliore speranza per una nuova civiltà più luminosa, giusta e gloriosa di quella che avevamo conosciuto.
Sapevo anche che non dovevo guardare il volto di Eleonora: leggerne l'amore per il suo uomo avrebbe inacidito tutto il mio potere rendendolo vano; ne avrebbe evidenziato l'impotenza a reclamarne il cuore. Una dolorosa beffa che avrebbe reso umiliante e insopportabile qualunque mia decisione.

Udan stava parlando ma io non l'ascoltavo: non avevo bisogno di farlo. Osservavo il suo corpo e la sua postura sicura di sé. Sapeva di essere eloquente e di stare guadagnando a ogni secondo la mia ammirazione e il mio rispetto. Nonostante tutto la sua fiducia in se stesso mi stupì. Un irritante dubbio mi pervase: forse avevo lasciato trasparire la mia incertezza? Forse lo sforzo di non guardare, neppure per un istante, gli occhi di Eleonora aveva tradito la mia unica debolezza?

Come se avesse percepito che la pensavo lei si mosse: non la guardai ma intravidi la macchia pallida, che sapevo essere il suo braccio, aggrapparsi e strattonare leggermente il lembo del mantello di Udan.
Lui, senza smettere di parlare, si piegò appena verso di lei e il suo petto villoso si scoprì per un attimo: in quell'istante vidi sopra il suo cuore un tatuaggio dimenticato, vidi di nuovo l'orribile testa del giaguaro che rideva beffarda di me. Vidi Eleonora, ora avvinghiata sopra di lui, che baciava con passione proprio la piccola belva tatuata sul suo ampio petto, la vidi ora, schiacciata sotto di lui, che gemeva felice e innamorata. Vidi che tuttora, nonostante il mio inumano potere, avrebbe riso del mio amore per lei. E fu allora che mi avvidi di quanto grande fosse il mio odio. Vidi che l'umanità al suo confronto non meritava né la mia comprensione né il mio sacrificio.

Fu allora che dai miei occhi scaturirono due violentissime saette assassine che, con un accecante lampo azzurro, avvolsero la coppia. Il boato fu immediato e tremendo: i corpi, le sedie, il tavolo, il pavimento e la parete alle loro spalle esplosero in mille frammenti travolgendo e mutilando i commensali. L'aria graveolente puzzava di ozono e carne bruciata mentre scariche di elettricità statica si inseguivano crepitando lungo le pareti. A terra nel carnaio di corpi sanguinanti e fumanti c'erano solo pochi sopravvissuti che gemevano come irritanti gattini gnaulanti.
Di Eleonora e Udan non erano rimaste che delle macchie scure e fumanti ma la mia ira non si placò e anzi, adesso che l'avevo lasciata uscire, mi travolse e nutrendosi di se stessa e crescendo sempre più.
Con un grido furibondo spezzai la verga con la quale potevo controllare il mio potere: controllare la mia ira l'avrebbe ridotta a rabbia che mi avrebbe consumato dall'interno mentre io volevo che diventasse collera implacabile, perenne flagello per gli altri.
La terra sussultò e la casa crollò intorno a me: un verde fuoco preternaturale bruciava ogni cosa. Anche le pietre e i mattoni ne venivano divorati riducendosi a cenere nera. Era un uragano di morte che continuava a crescere distruggendo l'intera città: sentii una moltitudine di persone, tornate a popolare il vecchio quartiere, che morivano, ignare del perché, urlando fra le fiamme implacabili. Ma non me ne curai: lo ritenevo solo un misero quanto dovuto omaggio alla mia giusta collera.

Da allora sono passati millenni: l'umanità è in un nuovo medioevo barbarico dove regna l'oscurità e la violenza. E io ne sono la divinità suprema, temuta e odiata. Esigo cruenti sacrifici di sangue per non punire i miei stupidi adoratori. In particolare mi accanisco contro gli uomini brillanti, coloro che si alzano al di sopra dei loro pari per doti e fisiche e morali: con loro sono spietato e li ostacolo facendoli fallire in tutte le loro iniziative. Alla fine, dopo averli umiliati e resi invisi ai loro simili, li faccio morire orribilmente. La loro colpa è di quella di ricordarmi colui che mi derubò dell'amore di Eleonora: la loro sola esistenza mi fa ribollire l'ira mai placata del mio cuore.
Per qualche motivo i neri sacerdoti del mio culto, tanto inetti quanto ignoranti e perfidi, confondendo leggenda e realtà, mi chiamano il “giaguaro ghignante”: ma in realtà io non rido mai.

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