Mi svegliai: ero nella giungla tropicale circondato da liane, tronchi caduti, alte felci, fiori profumatissimi e libellule gigantesche. Era quasi buio ma non per il sopraggiungere della sera ma per colpa degli edifici che circondavano questo francobollo dimenticato di foresta. Ai miei piedi giaceva la testa di giaguaro che adesso non rideva più: le sue viscere, già ricoperte da mosche e formiche, erano sparse tutto intorno. Guardai la mia mano e mi accorsi di stringere il cuore della bestia. In quel momento seppi cosa fare: l'addentai e, non curandomi del sangue che mi colava sul collo e mi impiastricciava la faccia, lo mangiai tutto.
Una grande forza mi pervase: era talmente grande che sentivo il mio corpo enfiarsi faticando a contenerla. Temetti di esplodere mentre rabbia ed energia fuoriuscivano dai miei pori. Non ebbi più paura: ora ero io il cacciatore. Sapevo però di dover essere prudente: avevo un grande potere ma non sapevo come controllarlo.
Mi guardai intorno: il piccolo angolo di giungla non aveva sbocchi all'esterno. Dovetti risalire arrampicandomi sugli alberi per scalare poi le pareti della vecchia casa. Prima non ci sarei mai riuscito ma adesso era come fare una passeggiata: mentre ascendevo senza difficoltà mi permisi perfino di distrarmi pensando a un piano. La mia conclusione fu tanto semplice quanto la mia esaltazione era forte: decisi solo che avrei verificato la situazione nella casa per poi agire di conseguenza.
Arrivai al terrazzo: non c'era nessuno, era lo stesso eppure mi parve cambiato anche se non so bene in cosa. La porta a vetri non era chiusa. Silenziosamente scivolai all'interno nella luce soffusa. Doveva essere la grande camera da letto di Roberto ed Eleonora ma anche questa mi sembrò differente: non potevo esserne sicuro perché l'avevo visitata solo una volta, di nascosto, vittima dell'invidia e della melanconia. La disposizione di alcuni mobili era diversa? E quella panoplia di lance e scudo zulu appesa al muro? Le slanciate statuette d'ebano c'erano? E il tappeto? Eppure su una parete riconobbi la toilette da signora, sempre ricolma di spazzole e profumi, di Eleonora. Una vestaglia di pizzo era dimenticata su un angolo del letto e una scarpa dal tacco alta giaceva scompagnata sotto una sedia: anche se non potevo esserne sicuro mi convinsi che fosse proprio la stanza di Eleonora e Roberto.
Temevo che ogni istante perso potesse impedirmi di salvare la mia amata e così non indugiai oltre. Uscii nel corridoio e passai alla piccola cameretta adiacente. Anche qui non c'era nessuno: sotto la finestra c'era un lettino per bambini con le alte sponde di legno e alcuni giocattoli ai suoi piedi, dall'altro lato c'era una poltrona e un grosso armadio. Frugandolo rapidamente, in un cassetto, vi trovai una brutta veste da serva che aveva però il merito di essere estremamente larga. L'indossai facilmente sopra i miei vestiti: il mio potere era tale che sarebbe stato un travestimento più che sufficiente per permettermi di muovermi liberamente per la casa.
Scesi al piano inferiore: in una stanza vidi dei soldati che fumavano e giocavano a carte passandosi una bottiglia di whisky. Una grossa radio militare ronzava silenziosa mentre accanto a essa un soldato ciccione, con la camicia dell'uniforme slacciata sul ventre gonfio, dormiva su una poltrona tenendo i piedi scalzi su un basso panchetto e gli scarponi gettati da una parte.
Andai avanti, guardando in ogni stanza. Nessuno mi notò: chi mi intravide mi prese per una sguattera e non si degnò di farmi domande.
Non riuscivo però a spiegarmi la quotidiana tranquillità che intuivo nei comportamenti che vedevo: poi, in un attimo, ebbi un'illuminazione e mi resi conto di essere rimasto svenuto non per poche ore ma per molti anni: evidentemente ormai pensavano che io fossi morto e non temevano certo rappresaglie da parte mia. Nessun sospetto: tanto meglio per me.
Ripresi le ricerche: incontrai solo stanze vuote e una corpulenta serva di colore (la proprietaria dall'abito che indossavo?) impegnata a stirare un mucchio di panni...
Non vidi traccia dei miei compagni ma ormai non mi aspettavo di trovarne né, invero, mi importava del loro destino: il mio unico scopo era salvare Eleonora. Dopo tutto, se gli altri erano stati uccisi o venduti come schiavi, avevano solo avuto ciò che si meritavano.
Al piano terra c'era un'atmosfera completamente diversa: doveva essere l'ora di pranzo e la maggior parte degli ospiti della casa sembrava essere riunito a tavola nel grande salone da pranzo. Indugiai incerto: non sapevo bene che fare, da una parte avrei voluto affrontare i miei nemici ma, dall'altra, sentivo che era ancora troppo presto e che non ero pronto.
Forse per un vago appetito, impulsivamente decisi di andare in cucina: questa stanza non era cambiata quasi per niente e mi sembrò solo molto più logora per l'uso intenso che ne era stato fatto.
Mentre accarezzavo il vecchio tavolo, perso per un attimo in vecchi ricordi, mi sentii chiamare. Era una vecchia ma mi sembrò un mucchietto di stracci tanto era secca e minuta: la sua pelle era un labirinto di profonde rughe nere nel quale gli occhi erano solo due prugne secche e chiuse. Capii che era da sempre cieca ma percepii un barlume di magia. «Ragazza mia...» - mi disse con voce gracchiante, nonostante tutto incapace di “vedere” oltre il mio aspetto illusorio - «... tu hai un grande potere, ma devi imparare a controllarlo!». Era la mia occasione: «sì, sì è proprio così: insegnami come fare a usare la magia mia buona mamma!»- le risposi simulando una voce femminile.
La vecchia iniziò a piangere: si era convinta che io fossi la figliola da tempo morta, avrebbe voluto abbracciarmi e baciarmi ma non avevo tempo. «Buona mamma, saggia madre, insegnami! Te ne prego!» - insistetti senza avvicinarmi alle luride braccia protese verso di me. La vecchia capii che ero irremovibile e si rassegnò indicandomi, senza aggiungere una parola, la mensola sopra il forno. Non capivo ma lei continuò a fissarmi cieca e a tendere il braccio magro come un ramo secco verso lo sportello chiuso. Sospirai: temevo di star perdendo tempo ma mi dissi che, male che fosse andata, avrei forse trovato qualcosa da mangiare.
Aprii la piccola anta e improvvisamente rischiai di precipitare dentro il pozzo nero che si trovava al suo interno: come se la gravità si fosse ribaltata di novanta e passa gradi facendomi quindi cadere verso quello che fino a un attimo prima era stato “l'alto davanti a me”. Riuscii ad aggrapparmi ai bordi della mensola e, con estrema prudenza, vi infilai dentro la testa per guardare cosa c'era. A una decina di metri di distanza, avvolta in un bozzolo di luce, c'è una fatina con i capelli color biondo topo, sovrappeso e di mezza età: era indaffarata a maneggiare un telefonino e non mi degnava di uno sguardo. Poi si accorse di me che la guardavo e sbuffando mi disse con voce annoiata: «Per sfruttare il tuo potere deve imparare a usare la bacchetta magica...»
Mi ritrovai di nuovo nella cucina con la fatina cicciona al mio fianco che parlava senza guardarmi mangiucchiandosi le unghie della mano sinistra. La vecchia cieca rinsecchita sembrava essersi addormentata: non si mosse né proferì parola. Poi la porta da cui ero entrato si chiuse da sola sbattendo rumorosamente: «Ecco, ora riaprila con l'incantesimo...» - disse la fata.
Ma io non sapevo di quale incantesimo stesse parlando e, anzi, iniziavo ad arrabbiarmi: ero conscio che mi sarebbe bastato sollevare un sopracciglio per fracassare quella porta ma mi trattenni: quella era la mia potenza grezza ma io avevo bisogno di controllarla.
Lei insistette distratta: «Su ragazza, da brava, usa la formula GORBAKA NAK UTEL SICUT, dai...»
Io puntai la bacchetta verso la porta e provai a ripetere incerto - «GARBAKA NAK UTET SICUL». Sapevo di non aver ripetuto bene le parole e infatti la porta non accennò nemmeno ad aprirsi. Ma fu la fatina che prese l'iniziativa e che, sbuffando, mi brontolò «No! No! L'impugnatura è tutta sbagliata: il pollice non deve toccare l'indice, vedi...» e pose la sua mano sopra la mia sfiorandone il dorso.
In quell'attimo lei capì chi ero realmente e, urlando impaurita, si ritrasse da una parte: ma nello stesso momento anch'io avevo appreso le sue conoscenze. Ora sapevo come usare il mio potere: non me ne facevo niente di una piccola bacchetta da donna ma avevo bisogno di un grande bastone. Non ero una debole maghetta ma un possente taumaturgo. Avevo bisogno di un simbolo fallico adeguato, pensai ridacchiando fra me e me. Con una parola di potere richiamai nelle mie mani una nodosa e antica verga di quercia, lunga oltre due metri, appartenuta a una dimenticata divinità di un'era remota.
Riflettei se fosse il caso di uccidere la fatina ma questa approfittò della mia incertezza e scappò via all'interno della sua mensola. Io risi e decisi di lasciar perdere.
Mi avviai verso l'ingresso, non più nascosto nei panni dell'umile servetta, ma avvolto da tutta la maestà del mio potere che mi circondava come fosse un alone di fuoco.
Il post sentenza
5 ore fa
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