Da qualche tempo ho iniziato la lettura di "Colloqui con se stesso (Ricordi e pensieri)" di Marco Aurelio (*1).
Non male ma neppure eccezionale: non vi ho trovato quell'eccellenza che caraterizza in genere i classici dell'antichità in cui ogni singola frase ha grande valore. Qui i vari pensieri (che variano in lunghezza da poche righe a una paginetta) sono di qualità variabile. Marco Aurelio non metteva nero su bianco l'essenza più raffinata e meditata del proprio pensiero ma piuttosto una riflessione del giorno. Qualcosa, immagino io, che aveva pensato durante la giornata e che a sera decide di mettere per iscritto.
In questa maniera il livello medio della riflessione è molto variabile: un po' come il bloggatore che scrive quotidianamente o quasi quello che gli frulla per la testa!
Insomma Marco Aurelio non mi pare un grande ma un buon filosofo. Ecco, tipo un ottimo professore universitario di filosofia: qualcuno che conosce bene la materia ma che vi ha contribuito poco con idee sue proprie. Ovviamente questa è la mia pedantesca sensazione superficiale di non filosofo!
Molte riflessioni sono incentrate sul tempo, sull'importanza di fare il proprio meglio, agire per il bene collettivo, nel tempo di vita che si ha a propria disposizione.
Mi ha colpito tutta questa insistenza e credo abbia origine psicologica.
Una persona comune cosa può fare per la propria comunità? Sì, si dice che se ognuno fa il "proprio dovere" la comunità prospera. Ma quello che voglio dire è che il lavoro di un contadino può essere sostituito da quello di un altro contadino, quello di sellaio da un altro sellaio, quello di un muratore da un altro muratore. Il singolo non fa la differenza: conta più la volontà di cooperare con gli altri che poi ciò che si realizza in pratica. Da questo punto di vista se un giorno ci sentiamo malati è inutile fare uno sforzo extra per vincere la malattia e lavorare comunque: alla comunità cambia poco o nulla.
Ma Marco Aurelio era l'imperatore: tutto quello che faceva aveva il potenziale per cambiare la vita di milioni di persone, di cambiare la storia.
Il suo fare non era importante solamente nella propensione a cercare di realizzare il bene dell'Impero in senso astratto ma anche, e nel suo caso, concretamente: ogni sua azione era significativa, ogni secondo del suo lavoro era significativo.
In questa situazione una persona responsabile può sentirsi sopraffatta dalle responsabilità e dagli obblighi che la carica di imperatore impone. Ecco allora che la filosofia che Marco Aurelio ha adottato mi sembra che abbia l'obiettivo di rassicurarlo: fai quello che puoi nel tempo che hai, opera per il bene, e non avrai rimpianti per ciò che non hai potuto realizzare. Insomma mi pare che la sua filosofia sia una forma di sofisticata giustificazione per risolvere una nobile dissonanza cognitiva: il conciliare quello che si riesce effettivamente a fare con tutto quello che si vorrebbe fare.
Fatta questa lunga premessa voglio presentare un pensiero molto breve che ho letto ieri e che mi ha dato da pensare (e che non c'entra niente con la brevità della vita e simili di cui ho scritto sopra!).
"IL PIACERE
"34. Quanto sono grandi i piaceri di cui godono gli assassini, gli scostumati, i parricidi, i tiranni!" (*2)
Che ne pensate? Che significa questa frase? È forse ironia?
Una nota spiega: "Per dire che il piacere, se oggetto di esperienza per sí fatta gente, non deve essere considerato nel novero delle cose buone." (*3)
Sicuramente l'interpretazione della nota sarà corretta ma mi chiedevo se ci sia di più. Perché esprimere questo concetto in forma così contorta, quasi ironica?
In genere Marco Aurelio scrive chiaramente ciò che pensa...
Io credo che l'ultima parola, "tiranni", sia significativa: sospetto che esprima la tentazione dell'imperatore di non agire secondo giustizia ma di imporre la propria volontà. Poi vi aggiunge anche gli altri termini che danno il senso indicato dalla nota alla frase ma quello importante per Marco Aurelio è l'ultimo.
È molto umano lottare contro le proprie debolezze, contro ciò che sappiamo ingiusto ma che ci renderebbe tutto più facile. Le scorciatoie per raggiungere il proprio fine chiudendo un occhio sul mezzo...
Conclusione: insomma lettura interessante che alterno volentieri alle altre.
Nota (*1): da quando introdussi le epigrafi nell'Epitome ne uso una sua e, come sapete, mi piace usare epigrafi tratte effettivamente da libri che ho letto...
Nota (*2): tratto da "Colloqui con se stesso (Ricordi e pensieri)" di MArco Aurelio Antonino, (E.) Rizzoli, 1953, trad. Francesco Lulli, pag. 92.
Nota (*3): ibidem, pag. 225.
Il figlio della Concetta
10 ore fa
Assassini e tiranni si godono il potere dell'agire su vittime e sudditi, gli scostumati la lussuria. Non mi è chiaro cosa si godano i parricidi.
RispondiEliminaUUiC
L'eredità e, forse all'epoca più importante, l'essere liberi dalla potestà del pater familias...
EliminaAh, l'eredità...
EliminaCosì lontana dai miei pensieri che non ci pensavo neppure.
Grazie
UUiC
Comunque la mia è un'ipotesi non una certezza!
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