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giovedì 2 maggio 2024

La borghesia (1/2)

Sono tornato in città ma sto tardando a riadattarmi. Almeno è tornata la pioggia e non fa troppo caldo.
Comunque ho ignorato il mio ghiribizzo (e quelli altrui) perché ho rivolto il mio tempo libero allo studio degli scacchi. L’esito è ancora difficile da giudicare oggettivamente: se riesco stasera farò un salto a un circolo con persone in carne e ossa per farmene un’idea…

Ma oggi voglio scrivere il pezzo sul capitolo sulla borghesia di Hobsbawm che ormai è in attesa da giorni e che mi impedisce di proseguirne la lettura. Vabbè, sono io che non voglio riprendere a leggerlo prima di aver scritto questo pezzo! Come ho già spiegato, scriverci sopra un pezzo mi aiuta a memorizzare i diversi concetti e, contemporaneamente, io non leggo tanto per girare le pagine ma per assimilare nuove idee.

Chiaramente così a memoria non ricordo i vari dettagli che mi avevano colpito ma mi basterà ripercorrere le mie note a margine: procediamo quindi con ordine!

Il capitolo in questione è il VII, “Le incertezze della borghesia”, ed è diviso in sei sottocapitoli.

1. Il primo sottocapitolo fa una panoramica di cosa era la borghesia a cavallo fra XIX e XX secolo fino alla prima guerra mondiale. In realtà questa è l’essenza del capitolo e nei successivi sottocapitoli semplicemente si approfondiranno questi vari aspetti.
Il punto è che le “incertezze” da cui parte Hobsbawm sono di natura esistenziale: la borghesia proprio negli anni del suo successo maggiore perde la propria identità e non sa più riconoscersi.
Ipotizzo si tratti di un effetto simile a quello della legge dell’implosione ([E] 5.12): quando un potere cresce troppo la sua coesione interna si spezza e, nella pratica, si divide in nuovi potere.
Va poi ricordato che la borghesia, non basata su un gruppo omogeneo e uniforme, equivale a quelli che ho definito “gruppo aggregato” ([E] 3.8; novità della versione “Bohciaociao”). Sempre secondo la mia teoria i gruppi aggregati hanno quattro principali debolezze: 1. minor coesione; 2. difficoltà di comunicazione interna; 3. minor capacità decisionale; 4. difficoltà a gestire informazione condivisa (che in realtà si sovrappone ai punti 2 e 3).
Nello specifico i ricchissimi, nella sostanza se non nel nome, uscirono fuori da questa classe mentre i borghesi più poveri cercavano di differenziarsi dalla classe media. Questo lo si vede nelle abitazioni e nello stile di vita in genere (mia nota “vita privata non separata da esibizione status e affermazione sociale”). La tendenza era però a una separazione fra vita privata e pubblica per 4 motivi: la democratizzazione (con perdita di influenza politica diretta a scapito dei movimenti di massa); il maggior tempo libero; evoluzione famiglia (e ruolo donna); espansione del gruppo con aggiunte “dal basso”.
Sì, credo proprio che la trasformazione della borghesia descritta da Hobsbawm equivalga in effetti al fenomeno dell’implosione: non è un caso che l’opera precedente dell’autore fosse intitolata “Il trionfo della borghesia”. L’aver accumulato troppo potere in un gruppo non omogeneo e relativamente numeroso porta alla sua sostanziale dissoluzione.
Credo che (mia opinione non di Hobsbawm) fu in questo periodo che le classi più alte, i super ricchi, si resero conto che non era più conveniente per loro collaborare su un piano di parità con i semplicemente ricchi e, per questo, iniziarono a differenziarsi trasformandosi in un gruppo di influenza non più diretta ma indiretta. Da questo punto di vista fondamentale è il processo di democratizzazione citato da Hobsbawm: se i partiti liberali non erano più in grado di governare direttamente allora conveniva passare a tipi di influenza indiretta, dietro le quinte cioè.
Ovviamente si tratta di un processo plurigenerazionale che iniziò e procedette a velocità diverse nei vari paesi occidentali e i cui riverberi si fanno tuttora sentire (con la degenerazione totale della democrazia non si ha più una semplice influenza sul potere politico ma la sua totale manipolazione dietro al paravento dell’apparente legittimità democratica).

2. Parto con una citazione da cui mi sento tirare in ballo: «La sociologia […] è afflitta tuttora da interminabili e inconcludenti discussioni sulla classe e sullo status sociali, dovute all’inclinazione dei suoi cultori a riclassificare la popolazione nel modo più conveniente alle loro convinzioni ideologiche.» (*1)
Il merito della mia divisione in gruppi (e poteri) è che è basata su due parametri oggettivi: il grado di apertura e di autonomia a cui si sovrappone il grado di coesione meno facile da valutare. È un po’ quello che scrivo in [E] C.1: la mia scomposizione della società è valida per ogni società di ogni epoca e a diversi livelli di dettaglio mentre, per esempio, quella di Marx funziona per il XIX e XX secolo ma non per i precedenti e il XXI.
Come si intuisce dalla citazione sopraddetta il sottocapitolo è tutto incentrato sui labili confini della borghesia con vari fattori e tendenze che si sovrappongono: il declino dell’aristocrazia tradizionale ma l’emergere di un’aristocrazia del denaro ma analoga incertezza anche fra borghesia e classe media. Nella borghesia tradizionale si ha l’immagine tradizionale dell’imprenditore che fonda la propria industria ma che dire dell’alto dirigente stipendiato? È un impiegato come gli altri stipendiati o un borghese? E chi lavorava nel settore terziario? Qui il lavoro non era manuale ed era richiesto un titolo di studio superiore ma la paga era poco superiore a quella di un operaio…

3. A causa della generale ambiguità e aspetto polimorfo della borghesia andarono sviluppandosi dei criteri ufficiosi di appartenenza: 1. stile di vita; 2. tempo libero e (nuova invenzione dell’epoca) sport; 3. grado di istruzione.
Secondo Hobsbawm il più importante di questi criteri è il terzo, il grado di istruzione, e anzi secondo l’autore è “tuttora” il principale. Ho virgolettato il “tuttora” perché Hobsbawm scrive questo libro negli anni ‘80 mentre oggi non mi pare più così: la tendenza è l’eliminazione della borghesia e della classe media mentre il criterio fondamentale è (conseguenza del profittismo, [E] 14.4) il conto in banca. Del resto anche la “cultura” (compresa la scienza) oggi sta venendo “sterilizzata” e subordinata alla narrativa dominante: sempre più nozionismo e meno formazione individuo.
Interessante è anche la sottolineatura dell’importanza sociale di condividere particolari scuole esclusive per i legami che si formano fra gli studenti e che, anche negli anni della maturità, vengono sfruttate per aiutarsi reciprocamente (Hobsbawm presenta delle statistiche molto interessanti). Io vi vedo una parte di creazione di epomiti locali ([E] 6.3) e in parte di creazione di una sorta di microsocietà ([E] 22.1).
Da notare che all’epoca l’istruzione superiore era molto utile, soprattutto per trovare lavoro nella crescente burocrazia, ma soprattutto l’istruzione universitaria era veicolo di avanzamento sociale garantito. Capisco così i miei nonni paterni (nati a fine XIX e inizio XX secolo) che fecero studiare e laureare i tre figli anche se all’epoca, ormai anni ‘50, la laurea aveva assunto il peso di un diploma di mezzo secolo precedente…
Per non parlare di adesso in cui spesso, specialmente alcune lauree, sono sinonimo di disoccupazione, altro che avanzamento sociale! Ma come detto siamo nell’epoca del profittismo…

Pensavo/speravo di riuscire a concludere il capitolo con un unico pezzo ma ormai ho scritto abbastanza: vorrà dire che ci tornerò fra qualche giorno…

Conclusione: col senno di poi mi sembra che l’elemento più saliente (dal mio punto di vista “epitocentrico”!) di questo capitolo sia la comprensione che la borghesia è un esempio di gruppo aggregato e dell’effetto della legge dell’implosione….

Nota (*1): tratto da “L’età degli imperi” di Hobsbawm, (E.) Laterza, 2005, tradotto da Franco Salvatorelli, pag. 197.

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