Va bene, ieri mi sono dilungato più del previsto sugli aspetti del futuro non previsti da Hobsbawm. A ripensarci sembrerebbe anzi che non abbia indovinato niente ma non è così: in realtà ha individuato bene i meccanismi di alcune fondamentali tendenze non sempre però arrivando alle conclusioni corrette.
Un problema di fondo, come ho accennato in Le non previsioni di Hobsbawm, è che l’autore sottovaluta l’influenza dei media. Un suo punto fermo è che nelle democrazie occidentali il potere politico non possa andare contro l’opinione pubblica (se non con notevoli difficoltà) e questo lo porta a mettere dei paletti in ciò che i governi occidentali possono fare. Ma la situazione attuale è che tutti i media tradizionali sono allineati fra loro e ripetono lo stesso punto di vista: l’opinione pubblica è quindi fortemente diretta in specifiche direzioni.
In questi anni abbiamo visto un farmaco sperimentale, per una malattia pericolosa solo per una fascia piccolissima di persone, considerato e accettato come un salva vita.
La guerra in Ucraina è il trionfo della disinformazione e sono convinto che la maggioranza degli occidentali sia convinta che l’Ucraina stia vincendo, che il “folle” Putin voleva conquistare il mondo etc.
In questo contesto il potere politico può fare quello che vuole perché può convincere l’opinione pubblica di quello che vuole.
C’è da dire che nel decennio precedente Chomsky aveva già scritto “La fabbrica del consenso” (1988) che mostrava la tendenza dei media ad appartenere a gruppi economici sempre più grandi: era quindi prevedibile che questa tendenza si sarebbe accentuata con conseguenze a loro volta prevedibili. Ma è facile per me parlare col senno di poi…
Il capitolo in questione è il XIX, “Verso il terzo millennio”, diviso in 7 sottocapitoli dove l’ultimo è “di saluti”. Di questi il 6° sottocapitolo sarebbe da copiare parola per parola e può darsi che ne scriverò in un pezzo a parte.
Il primo sottocapitolo è sulla violenza (in senso generale): terrorismo, fondamentalismo e guerra vera e propria. Questi eventi dipendono troppo da situazioni specifiche per essere prevedibili. Hobsbawm specifica soltanto che all’inizio degli anni ‘90 l’occidente (beh, gli USA) era militarmente imbattibile: soprattutto i paesi del “terzo mondo” non avevano speranze in una guerra tradizionale. Probabilmente Hobsbawm aveva ben chiara in mente la prima guerra del Golfo del 1990-1991 dove l’esercito iracheno, considerato uno dei più forti al mondo, fu spazzato via dalla potenza occidentale.
Oggi questo non è più completamente vero a causa del declino militare/economico/scientifico degli USA: ma come scritto nel pezzo sullodato era impossibile prevedere la rapidità del crollo americano.
Nel secondo sottocapitolo si parla delle ideologie politiche (equiparate a religioni) e in particolare di quella comunista e quella super liberista.
Dell’ideologia comunista ne lega il crollo a quello dell’URSS e, anzi, si domanda se essa segni la fine del comunismo. Più interessante è la sua valutazione dell’ideologia super liberista di cui vede il massimo esponente nella Thatcher del decennio precedente.
Secondo Hobsbawm anche il liberismo esasperato è palesemente fallito e, quindi, si dovranno cercare alternative.
Scrive Hobsbawm: «D’altro canto, l’utopia contraria a quella sovietica è anch’essa palesemente fallita. Si tratta della fede ideologica in un’economia nelle quali le risorse siano ripartite interamente da un mercato senza alcun freno, in condizioni di competizione illimitata: uno stato di cose che, secondo i suoi fautori, dovrebbe produrre non solo il massimo di beni e servizi, ma anche il massimo di felicità e il solo genere di società che merita il nome di “società libera”. […] Il tentativo più coerente di realizzare in Occidente questa utopia, cioè il governo della signore Thatcher in Gran Bretagna, il cui fallimento economico venne generalmente riconosciuto all’epoca in cui quel governo cadde, dovette procedere con gradualità.» (*1)
La valutazione del “momento” di Hobsbawm è corretta: probabilmente per gli “esperti” era già evidente che un’economia che azzera il ceto medio e impoverisce tutti tranne i ricchissimi non rendeva tutti più felici, anzi.
Quello che sfuggì a Hobsbawm, e io ovviamente scrivo col beneficio di trent’anni di senno di poi, è che il fallimento del comunismo sovietico fu di vari ordini di grandezza più evidente tanto che divenne paradossalmente la prova del successo del liberismo occidentale.
Nell’appendice [E] D.5, “Considerazione storica”, scrivo: «Il crollo dell’URSS ha poi trascinato con sé anche l’ideologia comunista e, per una sorta di paralogismo, ha portato all’esaltazione del liberismo come unica para-ideologia possibile. Ma in realtà, come vedremo nel prossimo sottocapitolo, il fallimento di un’ideologia (il comunismo sovietico) non equivale alla dimostrazione che quella che vi si opponeva (il liberismo statunitense) fosse migliore.»
Ma il tradimento dei media tradizionali invece consolidò l’idea che l’iper liberismo fosse l’“unica” strada percorribile. In Italia ciò si tradusse nei vari “ce lo chiede l’Europa” e nella privatizzazione delle aziende pubbliche e la progressiva ritirata dello Stato dalla sua funzione sociale.
Hobsbawm accenna anche all’ascesa dei populismi e, in particolare, al problema che denunciare un problema non equivale a saperlo risolvere. Potrei copiare le parole di Hobsbawm al riguardo (ultimo periodo di pagina 655) ma sono pigro e, quindi, prendetemi sulla parola, sono equivalenti a questo mio passaggio [E] 13.6, “I pericoli del populismo”: «I populismi tendono infatti a sfruttare la frustrazione popolare: evidenziano facilmente i problemi della società senza essere dotati, almeno in genere, di una solida ideologia né della comprensione delle loro origini necessaria per risolverli.»
Il sottocapitolo 3 è invece sui massimi pericoli per l’umanità del futuro. Nel primo sottocapitolo l’autore aveva eliminato il pericolo di guerra nucleare grazie alla distensione fra USA e URSS: impensabile la stupidità umana che, una generazione dopo, va a cercare volontariamente questo pericolo: dei bambini che giocano col fuoco…
Comunque per Hobsbawm rimangono due grandi problemi: «I due problemi centrali e determinanti nel lungo periodo sono quello demografico e quello ecologico.» (*2)
Negli anni ‘90 mi sembra indichi una notevole chiarezza delle priorità: anch’io dovrò rivalutare alcuni punti della mia Epitome per tenere conto dell’influenza del problema demografico (come del resto mi ero già riproposto di fare grazie ad alcuni commenti di UUiC).
Dal problema demografico deriva poi la crescita della diseguaglianza economica fra Stati e l’emigrazione dai paesi poveri a quelli più ricchi.
Hobsbawm di nuovo sottovaluta il potere dei media di controllare l’opinione pubblica e formula un paio di ipotesi con cui i paesi ricchi avrebbero potuto gestire il fenomeno che adesso sembrerebbero inaccettabili o di estrema destra (e Hobsbawm è sempre stato un vero comunista!). Per esempio suggerisce un sistema in cui i lavoratori stranieri possono lavorare in un paese ma senza acquistare diritti politici e, una volta terminato il contratto, se ne ritornano, anche dopo anni, nei paesi di origine.
Questo perché le problematiche causate da un’immigrazione incontrollata sono evidenti e l’opinione pubblica, secondo Hobsbawm, non le tollererebbe.
Di nuovo qui lo storico sottovaluta la potenza persuasiva di un sistema con i media che propongono un’unica verità e, quindi, riescono a manipolare come vogliono l’opinione pubblica.
Vediamo se trovo un passaggio non troppo lungo che esprime almeno parte di questi concetti… Ecco: «La [soluzione] più probabile è quella di consentire un’immigrazione temporanea e condizionata, che non dà agli stranieri i diritti politici e sociali di cittadinanza, cioè di creare società essenzialmente non egualitarie.» (*2) (*3)
Stranamente Hobsbawm non accenna a una possibilità che a me pare ovvia: il controllo delle nascite. Forse preferisce evitare di infilarsi in un ginepraio.
Per la cronaca non vi è neppure nessun accenno al pericolo di una pandemia.
Il sottocapitolo 4 è invece dedicato all’economia. Prevede:
- aumento distanza fra paesi ricchi e poveri.
- meno lavoro dovuto alla tecnologia. I “nuovi” lavori non sufficienti per rimpiazzare i vecchi persi.
Osservazione molto attuale pensando alla novità dell’IA. Al riguardo rimando a [E] 21.4, “Il pericolo dell’Intelligenza Artificiale (IA)”.
Ci sarebbero molti altri spunti interessanti ma non voglio/posso dilungarmi troppo.
Per il resto del sottocapitolo Hobsbawm prevede correttamente quali sono i problemi di un eccesso di liberismo (che lui ha già notato negli anni ‘80 nel Regno Unito) e conclude che in futuro si dovranno superare questi difetti evidenti.
Per esempio: «[…] un’economia di libero mercato senza restrizioni né controllo non può offrire alcuna soluzione a essi [problemi sociali]. Se mai, non può che peggiorare fenomeni come la crescita di una disoccupazione o di una sottocupazione permanenti, dal momento che la scelta razionale delle imprese orientate al profitto è: a) ridurre il più possibile il numero dei dipendenti […]; b) ridurre il più possibile tutte le tasse per la sicurezza sociale e ogni tassa in generale.» (*4)
Mentre in precedenza aveva scritto della tendenza del lavoro a migrare dove il costo è minore con conseguente diminuzione del costo del lavoro anche nei paesi ricchi (tutti più poveri tranne i ricchissimi).
Forse l’osservazione più interessante è come, con la globalizzazione, vengano a mancare i mezzi tradizionali con cui uno stato può proteggere la propria società: per esempio col protezionismo che, tipico del XIX secolo, aveva portato ricchezza e sviluppo ai vari stati europei.
O venendo a noi basta osservare come le norme europee (sostanzialmente scritte dalla Germania per la Germania) impediscano agli stati di intervenire anche per le emergenze con la motivazione che drogherebbero il mercato e sarebbero “aiuti di stato”.
Un'altra osservazione notevole è che con l'aumento inevitabile della disoccupazione (dato dalla tecnologia) diventa fondamentale la ridistribuzione della ricchezza dalle multinazionali sempre più ricche al resto della popolazione: per far questo però occorrerebbero stati forti che però, come scritto sopra, con la globalizzazione tendono invece a indebolirsi. Ecco spiegato l'aumento della diseguaglianza sociale in cui un pugno di supermiliardari ha la stessa ricchezza di metà della popolazione mondiale (ovvero di circa 5 miliardi di persone): e quello che avviene a livello globale si replica a livello dei singoli stati.
Infine: «Con l’avvicinarsi del terzo millennio, è diventato sempre più chiaro che il compito centrale del nostro tempo non è di esultare dinanzi al cadavere del comunismo sovietico, ma di considerare, ancora una volta, i difetti intrinseci del capitalismo» (*5). Segue elenco…
Il sottocapitolo 5 inizia a essere molto interessante: Hobsbawm afferma che il crollo sovietico sembra aver esaltato il successo del capitalismo e della democrazia liberale.
Questi due elementi sono spesso considerati sinonimi ma in realtà non lo sono: mentre Hobsbawm non nutre dubbi che il capitalismo (non l’eccesso di iper liberismo che invece ha poi trionfato) sopravviverà, lo stesso non si può dire per la democrazia liberale, al di là delle più vuote apparenze. Attuale, eh?
Scrive infatti: «D’altro canto nessun osservatore serio nei primi anni ‘90 potrebbe essere così ottimista sul futuro della democrazia liberale come lo è su quello del capitalismo. Il massimo che si possa prevedere con una certa fiducia […] è che in pratica tutti gli stati continueranno a proclamare il loro profondo attaccamento alla democrazia, a organizzare elezioni di qualche tipo, a tollerare un’opposizione talvolta soltanto formale, proprio mentre ciascuno di essi interpreterà a suo modo la democrazia.» (*6)
Poi cominciano i “fuochi d’artificio” ma ormai rimando il seguito a un prossimo pezzo…
Conclusione: qui si inizia a intravedere il problema di fondo della previsione di Hobsbawm: non pensava che le cose potessero proseguire lungo la traiettoria peggiore che aveva individuato perché era certo che l’opinione pubblica si sarebbe opposta. Non aveva preso in considerazione la forza della narrativa unica uniformata su tutti i media tradizionali.
Nota (*1): tratto da “Il secolo breve” di Eric J. Hobsbawm, (E.) BURexploit, 2009, trad. Brunello Lotti, pag. 651.
Nota (*2): ibidem, pag. 656.
Nota (*3): a onor del vero non ho trovato nella pagina in questione un accenno chiaro alle difficoltà “evidenti” per la società dell’immigrazione: potrebbe quindi essere una mia allucinazione ma sono piuttosto sicuro che altrove Hobsbawm abbia scritto della minor coesione sociale provocata dall’immigrazione. E comunque ciò è implicito dal fatto che non prende seriamente in considerazione l’immigrazione incontrollata.
Nota (*4): ibidem, pag. 662.
Nota (*5): ibidem, pag. 663.
Nota (*6): ibidem, pag. 664.
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