Non mi sento a mio agio a scrivere o a leggere: è il rumore della città continuo e martellante che mina la mia scarsa concentrazione necessaria per svolgere queste attività… sigh…
Proverò comunque a scrivere il pezzo sull’arte dopo la seconda guerra mondiale basato sul capitolo XVII, “Morte dell’avanguardia. L’arte dopo il 1950”, de “Il secolo breve”.
Il punto fondamentale, di cui avevo già scritto commentando il precedente capitolo sull’arte fra le due guerre, è che non mi è chiaro quanto l’arte influenzi la società e/o la società influenzi l’arte.
Hobsbawm non affronta il problema che, evidentemente, non considera tale. Ipotizzo che abbia scritto di questo rapporto in opere precedenti: “Il secolo breve” è l’ultimo libro di una serie sulla storia del mondo dal settecento in poi (*1).
Il ragionamento più interessante è che non c’è motivo di credere che la percentuale di grandi musicisti classici come Mozart o Beethoven sia diminuita nella popolazione ma quali sono i grandi compositori di musica classica del XX secolo e, soprattutto, dopo la seconda guerra mondiale?
La spiegazione di Hobsbawm è che questi potenziali talenti scelgono altre strade per esprimere le loro capacità.
La tecnologia ha reso infatti la musica fruibile a tutte le persone in, praticamente, ogni situazioni: radioline prima, furbofoni adesso. E quanti soldi girano nella musica popolare rispetto alla musica classica?
Qualcosa di simile nella pittura: prima vi era solo la rivalità con la fotografia, ma adesso anche fare film è alla portata di tutti coloro che ne abbiano una ferma volontà.
Per non parlare dei potenziali talenti che, non vedendo sbocchi nel mondo dell’arte, seguono poi altre strade.
Anche la parola scritta ha subito un declino: nonostante l’aumento degli alfabetizzati i lettori diminuiscono. E questo fu scritto nel 1993: figuriamoci adesso.
In generale vi è un aumento di istruzione ma una diminuzione più significativa di cultura.
Gli artisti seguono le strade che danno le maggiori opportunità di guadagno e queste non sono più nell’arte tradizionale.
Si ritorna quindi al punto di partenza: l’arte attuale è in grado di influenzare la società.
Se per arte ci limitiamo a intendere la pittura o la musica classica la risposta è no: se però consideriamo la musica leggera o le pellicole cinematografiche la risposta è diversa.
Già nell’Epitome suggerisco l’importanza del film “Rambo” (1982, senza dimenticare i vari seguiti) nel cambiare la cultura statunitense e occidentale in genere: negli anni ‘70 la popolazione americana era pacifista ma negli anni ‘80 evidentemente qualcosa cambia e rende accettabili gli interventi militari USA dal 1990 in poi.
E per la musica popolare?
Qualche tempo fa ho discusso un caso specifico sul sito Correndo sull’orlo del boccale commentando l’articolo Analisi dei simboli insiti nel Renaissance World Tour di Beyoncé. Qui il bloggatore Marco Poli commenta un articolo che analizza i simboli/messaggi dello spettacolo di una famosa cantante.
In verità io, dopo aver letto l’intero articolo originale (corredato da molte foto) ma senza aver visto lo spettacolo, ero piuttosto scettico. In particolare in una foto si vede il messaggio “Whoever controls the media controls the minds” che a me pare andare contro l’ipotesi dell’autore, ovvero che la cantante sia una musa delle élite. Chiaro che, lo ripeto, bisognerebbe vedere lo spettacolo per esserne sicuri: per esempio il testo della canzone associato a tale immagine potrebbe cambiarne il senso o farlo apparire ironico, non so…
Resta il fatto che la musica può effettivamente essere usata per influenzare i giovani.
Un caso lampante è la canzone “Gasoline” dei Maneskin: questa, in pratica, è un attacco al “folle” Putin. I Maneskin si dimostrano così ottimi musicisti ma politicamente molto ingenui. Ricordo di aver sentito dire che, per la prima volta, non tutte le canzoni del nuovo album erano scritte da loro: non mi stupirei se questa “Gasoline” fosse una di queste…
Certo che per influenzare significativamente la società il singolo artista/gruppo deve essere essere un gigante: mi vengono in mente i Beatles e i Queen.
Però forse il punto di vista del potere è che “tutto fa brodo”: i Maneskin raggiungono per esempio un pubblico di giovani che non guarda la televisione e, quindi, più immune alla manipolazione tradizionale. Anche se i Maneskin raggiungessero solo un 20% (cifra a caso) dei giovani sarebbe comunque qualcosa di significativo.
Poi, intendiamoci, l’influenza non deve essere necessariamente guidata dall’alto ma può anche essere autonoma: non penso che nessuno nei palazzi del potere a Washington o Londra gradisse particolarmente i messaggi pacifisti e di fratellanza di John Lennon!
Altro aspetto che emerge dal testo di Hobsbawm è come molti artisti della seconda metà del XX secolo non siano occidentali: sembra che le comodità non facciano bene all’arte e che, per avere messaggi significativi da trasmettere agli altri, si debbano vivere in prima persone delle esperienze difficili. O forse sono le difficoltà che temprano l’individuo e gli danno la volontà di condividere il proprio pensiero (in forma artistica).
Penso inoltre che in occidente l’artista fosse più motivato a cercare il successo in quanto tale e i vantaggi economici, ma non solo, che questo comportava. Per fare ciò aveva la tendenza a rischiare meno e a riproporre gli schemi espressivi che si sapevano vincenti. Ma, come ho citato altre volte, “Chi scrive per le masse disperi di essere ricordato”. Ciò che è veramente innovativo può essere compreso e apprezzato solo da una minoranza ristretta della popolazione: se si mira a “piacere” alla maggioranza si dovranno proporre messaggi, idee, forme di espressioni, trite e ritrite.
Conclusione: scusate la banalità del pezzo ma mi è difficile concentrarmi come vorrei...
Nota (*1): io ne ho già comprato un altro ma non inizierò a leggerlo subito. Penso di aver preso quello immediatamente precedente ma non ne sono sicuro! Buffo riscoprire la storia andando indietro nel tempo...
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