Oggi mi sono alzato presto e per un paio di ore ho voluto distrarmi scrivendo un po’ di Strabuccinator: piano piano sto finendo le aggiunte programmate…
In realtà però voglio scrivere de “Il secolo breve”: ho iniziato il capitolo XII sul “Terzo mondo”.
Nelle prime tre pagine riassume l’argomento centrale di “Collasso” di Diamond: l’aumento spropositato della popolazione provoca povertà. Argomento banale ma, chissà perché, spesso trascurato.
Sul finale del primo sottocapitolo viene presentata una teoria (non di Hobsbawm!) chiamata “transizione demografica” che non mi convince. Secondo questa teoria, prima o poi, una società raggiunge un equilibrio demografico caratterizzato da bassa natalità e bassa mortalità. In alcuni paesi dell’est asiatico si è in effetti verificato qualcosa di questo genere ma non, per esempio, in Africa.
Secondo me, l’uomo, per sua natura, come qualsiasi animale, tende a riprodursi e quindi a moltiplicarsi fino a consumare tutte le risorse disponibili. Per non farlo devono intervenire dei fattori esterni.
Prima di tutto devono essere disponibili dei contraccettivi efficaci.
Poi la donna deve avere il controllo e la libertà di non avere figli: mi chiedo quando questa avvenga.
Di sicuro di pende dalla cultura della società. Affinché una donna decida di non avere figli deve pensare che l’alternativa sia preferibile. E qual è l’alternativa?
Nel mondo occidentale, dove tutto si misura col denaro, può essere la carriera. Altrove non saprei…
Ritengo quindi che in Africa la cultura non conceda alle donne molte alternative rispetto alla famiglia con la conseguenza della crescita della popolazione. In Asia orientale è possibile che i protomiti occidentali del lavoro/indipendenza femminile siano maggiormente penetrati o, forse, vi sono altre spiegazioni.
Ma l’idea di questa “transizione demografica” miracolosa e automatica non ha senso…
Uhm… mi sembrava ci fosse di più da scrivere…
Ne approfitto allora per fare un passo nel capitolo precedente (*1) e presentare un concetto interessantissimo.
La degenerazione della cultura porta a una degenerazione del capitalismo.
Questo significa che il capitalismo, così come fu descritto da Adam Smith, non crea ricchezza e benessere per tutti automaticamente: sono necessarie delle precondizioni culturali che Smith dette per scontate, ovvero insite nell’uomo, ma che in realtà erano culturali e, quindi, modificabili nel tempo.
Qualche esempio di questi valori: «Il capitalismo faceva affidamento sull’“abitudine a lavorare”, che Adam Smith considerava uno dei moventi fondamentali del comportamento umano, nonché sulla disponibilità a rinviare a lungo la gratificazione immediata, cioè a risparmiare e a investire in previsione di future ricompense, sull’orgoglio di ottenere buoni risultati, sul costume della fiducia reciproca e su altre abitudini che non erano implicite nella massimizzazione razionale dell’utilità di ciascuno.» (*2)
E poi «In altri termini, il capitalismo aveva avuto successo perché non era soltanto capitalista. La massimizzazione e l’accumulazione dei profitti erano condizioni necessarie ma non sufficienti per il suo successo.» (*3)
Personalmente vi vedo analogie e sovrapposizioni con la mia teoria della “deriva morale” anche se questo è un concetto ben diverso.
Andando ancora un po’ più indietro vale la pena menzionare una delle poche idee di Hobsbawm che non mi hanno convinto. Nel capitolo sulla cultura giovanile afferma che, dagli anni ‘60 in poi, i giovani delle classi elevate copiano il linguaggio e l’atteggiamento di quelle più basse.
In realtà espresso in questa forma il concetto è formalmente corretto: ma secondo me è importante sottolineare che si tratta di un’imitazione superficiale che non incide sui valori più profondi. Quando i giovani benestanti maturano ed entrano nella società allora smettano di protestare contro di essa e le sue ingiustizie e non esitano ad approfittarsi dei vantaggi della loro posizione privilegiata.
Come ho scritto altrove un concetto molto importante che ho maturato recentemente è che solo chi è fuori dalla società potrà lottare contro di essa: chi è integrato nella società invece la difenderà per proteggere così anche la propria posizione.
Chi protesta quindi? I giovani, i disoccupati, gli schiavi (nel passato), i delinquenti (per interesse personale) o quei gruppi sociali che ritengono di essere trattati ingiustamente.
Conclusione: vabbè, un pezzo un po’ frammentato: ma ho sonno...
Nota (*1): semplicemente non riesco a scrivere di tutto ciò che trovo interessante e degno di menzione in questo libro: inevitabilmente di molte idee non riesco a scrivere...
Nota (*2): tratto da “Il secolo breve” di Eric J. Hobsbawm, (E.) BURexploit, 2009, trad. Brunello Lotti, pag. 402.
Nota (*3): ibidem, pag. 403.
Politicizzazione (s.f.)
37 minuti fa
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