È da qualche giorno che voglio scrivere di Hobsbwam ma poi, per un motivo o per un altro, rimando. Oggi non mi vengono a mente alternative e quindi…
Nel capitolo attuale l’autore riassume l’evoluzione della cultura, in varie fasce della popolazione, dopo la seconda guerra mondiale: aveva affrontato le donne e adesso i giovani.
Che i giovani abbiano una propria cultura è un po’ una novità: in un passaggio che mi ha colpito Hobsbwam scrive che prima la gioventù era vista come un periodo di preparazione all’età adulta, adesso è invece considerata la prima fase dell’età adulta: anche per questo motivo la soglia della maggiore età scese verso i 18 anni. Una distinzione sottile ma importante.
I motivi sono molteplici o, forse, è più corretto dire che non siamo sicuri di quale sia stata la causa!
Da una parte la piccola ma significativa disponibilità finanziaria, subito adocchiata dalle grandi industrie come mercato e che, a sua volta, contribuì ad alimentare questa “cultura” giovanile fornendole feticci con cui identificarsi.
Ma questa non può essere la ragione principale dato che un cambiamento analogo, sebbene meno evidente, si sviluppò anche fra i giovani del terzo mondo.
Ora non mi ricordo tutte le possibili concause elencate da Hobsbwam (*1) ma quella che ho trovato più convincente è l’evoluzione tecnologica: oggi non dico un giovane ma a volte perfino un bambino è in grado di usare con più destrezza ed efficacia un nuovo strumento tecnologico. Si ribalta così il tradizionale rapporto fra giovani e anziani dove non sono più i primi a insegnare ai secondi ma il contrario. È chiaro che psicologicamente questo porta sia l’anziano a considerare il giovane più adulto di quanto sia e il giovane a sentirsi più maturo ed esperto dell’anziano.
Mi chiedo poi quale possa essere stato il ruolo della scuola divenuta sempre più moderna: forse proprio l’insistere meno sui valori tradizionali ha facilitato la creazione di un diverso modo di pensare e sentirsi nei giovani: il giovane studente non pensa più “io diventerò come i miei genitori” ma “io diventerò diverso da loro” (*2).
Un altro fattore parzialmente suggerito da Hobsbwam è dato dall’invecchiamento della classe dirigente grazie al miglioramento della medicina e all’allungamento della vita attiva: negli anni ‘50 tutte le maggiori nazioni occidentali sono governate da uomini formatisi alla fine del XIX secolo.
Ma io penso che il fenomeno sia più generale: in una società dove tutti vivono più a lungo, tutti tendono a conservare il proprio potere/lavoro più a lungo. Questo rende più difficile al giovane inserirsi in posizioni di prestigio ma lo costringe a una gavetta più lunga proprio quando avrebbe più energie da spendere. E come scrivo nell’Epitome si può lottare contro la società solo se non si è parte integrante di essa: allora infatti non è più conveniente farlo ma, anzi, si cerca di difendere la propria “posizione” in essa.
Un altro elemento da considerare è l’aumento dell’individualismo portato dal liberismo: è tutta un’esaltazione del singolo, quanto vale e cosa può raggiungere. Conta meno il “noi” della società a partire dalla famiglia stessa.
Infine c’era un’ulteriore barriera fra adulti e giovani: l’esperienza della guerra e la migrazione dalle compagne alla città. Come anch’io scrivo nell’Epitome queste esperienze collettive tendono a plasmare e uniformare la mentalità di una larga fascia della popolazione con specifici valori e principi che però non saranno automaticamente condivisi dalle generazioni successive. Banalmente pensiamo all’attenzione alle spese dei nostri nonni (sicuramente dei miei) e della maggiore facilità con cui adesso le famiglie scelgono di indebitarsi, magari non per necessità ma per comprare una macchina nuova più prestigiosa.
Scrivo “cultura” giovanile fra virgolette perché non ha una sua vera e propria ideologia ma piuttosto una semplice accozzaglia di due tendenze: il rifiuto delle regole e la nascita popolare, cioè dal basso. Del resto i giovani sentono una barriera a entrare nella società, ovvero nel mondo del lavoro, ma non hanno idea di ciò che l’abbia creata e come andrebbe corretta: non hanno gli strumenti per capire l’essenza del loro stesso disagio né cosa, come e perché lo provochi. Per questo non propongono soluzioni ma solo protesta.
Alcuni motti sono particolarmente indicativi: «Tutto e subito» o «vietato vietare»…
Ah! Ecco un’affermazione giovanile datata al 1988: leggetela e pensate se e cosa vi ricordi: «Prendo i miei desideri per la realtà, perché credo nella realtà dei miei desideri.»
Che ne pensate? Suona bene, vero?
Ebbene, non sorprendentemente, la cultura “woke” non nasce dal niente ma è evidentemente il proseguimento della traiettoria iniziata negli anni ‘90 (*3). Oggi la confusione fra desiderio e realtà è infatti totale e se ciò, a livello individuale, anch’io lo ritengo legittimo, si è ora passati allo stadio successivo di pretendere che il nostro desiderio diventi realtà non solo per noi ma anche per gli altri.
Da notare che questa idea, me ne rendo bene conto a formularla così, rompe uno dei due principi di giustizia fondamentale di Rawls. Per l'ideologia "woke" la libertà (nella forma di percezione della realtà) di uno dovrebbe prevalere su quella di molti mentre, per Rawls, dovrebbe regnare l’equità.
Forse non casualmente Hobsbwam nella pagina successiva accenna anche allo svilupparsi di una cultura omosessuale a New York e San Francisco nella seconda metà degli anni ‘60. Cito «[…] essi [cioè gli omosessuali] rifiutavano l’ordine delle relazioni umane nella società, stabilito da una lunga tradizione storica e sanzionato ed espresso dalle convenzioni e dalle proibizioni sociali.
Ancor più significativo è il fatto che questo rifiuto non avvenne in nome di altri modelli di ordinamento sociale – sebbene non mancassero gli ideologi “libertari” che sentivano la necessità di etichettare e di giustificare la contestazione del sistema e dell’ordine tradizionale -, bensì in nome dell’autonomia illimitata del desiderio individuale. […] Paradossalmente, i ribelli contro le convenzioni e le restrizioni sociali condividevano i presupposti sui quali era costruita la società di consumi di massa [...]» (il grassetto è mio; *4)
Che dire?
A me pare che in poche parole Hobsbwam riassuma sia l’essenza che i limiti dell’ideologia “woke”. Anzi vi aggiunge un’importante concetto sul quale ancora non mi ero ancora focalizzato: non è un’ideologia che mira a risolvere le ingiustizie della società, come le diseguaglianze economiche e tutte le altre storture prodotte da un liberismo esasperato, ma solo a proteggere la propria particolare nicchia di interesse personale. Ecco quindi che il potere, interessato a proteggere le diseguaglianze concrete da esso stesso generate, può trovare vantaggioso farsi portavoce di questa ideologia: avrà il sostegno dei suoi membri senza compromettere il vero sistema di ingiustizia che ha invece volontà e interesse di proteggere.
Prima di concludere una nota semi personale. A inizio del capitolo Hobsbwam afferma che i giovani hanno la tendenza a conformarsi e uniformarsi: chi non ricorda le bizze di bimbetti che vogliono questo o quell’articolo come hanno “tutti gli altri” o come, del resto, i bambini tendano a prendere in giro chi è diverso da loro.
La cosa buffa è che lo sapevo (ho la sensazione che me lo disse mio padre quando ero bambino) ma me ne ero dimenticato: quando penso ai giovani, inevitabilmente, parto basandomi sulla mia esperienza personale e io, come forse potete immaginare, non ero per niente conformista. Intendiamoci adesso lo sono ancora meno ma, già all’epoca, tendevo a fare di testa mia senza preoccuparmi della possibile disapprovazione altrui e, in realtà, neppure notandola!
Nell’Epitome scrivo ([E] 1.3) della “plasmabilità infantile” ovvero di come i bambini possono essere facilmente convinti dagli insegnanti a credere a tutto ciò che gli viene raccontato ma avevo dimenticato quanto sia naturale la tendenza a cercare di uniformarsi, la voglia di essere accettato, di appartenere a un gruppo, a compiacere ipocritamente gli altri. Tendenze che in effetti aveva notato nei miei coetanei ma che avevo scordato!
Conclusione: credo che “Il secolo breve” sarà il libro del 2023! Ah! e ci sarebbe anche da commentare un paio di pagine in cui NON sono d'accordo con Hobsbwam, ma ne riscriverò in seguito (spero!)...
Nota (*1): sto scrivendo “a memoria” senza avere il libro sottomano: è in macchina e mi fa fatica scendere a prenderlo anche se comunque fra un po’ lo dovrò fare ugualmente perché ho in mente di farne delle citazioni molto precise…
Nota (*2): attenzione! questa è una mia elucubrazione non un pensiero di Hobsbwam!
Nota (*3): e se io all’epoca mi fossi immerso in essa (ma non l’ho fatto!) probabilmente l’avrei già notato!
Nota (*4): tratto da “Il secolo breve” di Eric J. Hobsbwam, (E.) BURexploit, 2009, trad. Brunello Lotti, pag. 392-393.
L'esempio di Benjamin Franklin
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