Nel capitoletto sulle pellicole di genere poliziesco/tensione di “Anatomy of film perfection” viene citato “Seven” di cui, anzi, si fanno i massimi elogi. Mentos scrive qualcosa del tipo: «“Seven” ha fatto morire il genere poliziesco/tensione perché le pellicole successive a esso o erano delle brutte copie oppure nettamente inferiori; ha alzato troppo in alto la barra del genere.» e poi continua a elencarne i pregi entrando nei dettagli.
Sono rimasto perplesso: per me “Seven” è un film guardabile ma niente di più. In effetti un mio amico esperto di video e, quindi, dotato di un certo occhio per valutare i film, quando oltre una decina di anni fa gli chiesi quali fossero i suoi preferiti, mi rispose “Seven” e “L’esercito delle 12 scimmie”.
Io avevo visto “Seven” una volta quando lo trasmisero su Tele+ negli anni ‘90 e basta. L’avevo registrato ma solo perché all’epoca registravo tutto. Comunque o me lo fece rivedere lui (forse mi prestò il DVD?) o comunque mi capitò di rivederlo. Stesso effetto: a me i vari crimini mi sembra che siano talmente inverosimili che invece di appassionarmi creano una barriera che mi impedisce di lasciarmi coinvolgere dalla storia. Lo stesso per il drammatico finale a sorpresa: niente, lo guardo dall’esterno, con distacco, perché non mi coinvolge.
Anche “L’esercito delle 12 scimmie” mi lasciò molto freddo: non mi piaceva l’ambientazione, mi sembrava non credibile, all’epoca trovavo antipatico Bruce Willis (che ho iniziato ad apprezzare dal “Sesto senso” in poi), la trama confusa e poco convincente e il colpo di scena finale che era proprio il protagonista a provocare l’epidemia che avrebbe dovuto evitare, deludente e banale.
Riflettevo questo quando verso le 5:00 ho provato a tornare a dormire dopo aver letto una mezz’oretta (ero sveglio dalle 4:00). Ho pensato che forse avrei potuto scriverci un pezzo (in effetti questo è un pensiero piuttosto frequente!) e mi è così tornato a mente un argomento su cui vorrei tornare, perché ne ho già accennato questa estate mi pare, ma che tendo a dimenticare.
L’idea è che se mille (o duemila?) anni sono un periodo di tempo sufficiente per modificare il profilo genetico degli abitanti di una nazione allora lo stesso periodo di tempo può portare a piccole variazioni evolutive nella popolazione.
Del resto da tempo avevo letto che mediamente gli abitanti di una nazione europea (ovviamente escludendo gli individui di recente immigrazione) hanno un antenato comune vissuto circa 900 anni fa: quindi una qualche caratteristica di tale individuo è patrimonio comune di tutta la popolazione, e allora perché non altre?
Ecco, nel corso dei mesi mi sono sempre più convinto che l’uomo si sia evoluto per vivere in società complesse e comunità numerose.
Se l’ambiente è una società complessa allora l’individuo evolverà per trarne vantaggio: in altre parole le caratteristiche che fanno sì che il singolo riesca a trarre vantaggio dalla società vengono premiate: la furbizia che permette di sfruttare a proprio vantaggio, e a scapito degli altri, eventuali limiti del sistema sociale; l’ubbidire lasciando che siano altri a rischiare protestando contro gli abusi del potere; anzi schierarsi proprio dalla parte del potere per trarne il massimo vantaggio personale a dispetto di quello che sarebbe giusto fare e simili.
Tutte caratteristiche che nei precedenti 200.000 anni di vita della specie dell’uomo moderno, quando questi viveva in piccoli gruppi dove tutti conoscono tutti, non erano altrettanto favorevoli: il furbo che si approfittava degli altri, se scoperto, probabilmente veniva severamente punito in una comunità costituita da poche centinaia di individui.
Ora no: nella società moderna non sappiamo se il nostro vicino di casa fa il furbo con le tasse o se la macchina, con il contrassegno per invalidi, che troviamo al relativo posto riservato del supermercato appartiene davvero a un invalido e non a un furbetto…
Alla fine, andando all’essenza del fenomeno, la società moderna premia due tipologie di persone: quelle con deboli valori morali, che non esitano cioè ad approfittarsi di ogni possibile vantaggio senza preoccuparsi del danno alla collettività; quelli che accettano pedissequamente gli abusi del potere senza ribellarsi, che si autoconvincono che tutto vada bene (per evitare la dissonanza cognitiva).
E questo senza considerare il presunto calo di intelligenza, del resto chi obbedisce non ha bisogno di pensare con la propria testa, che comunque potrebbe essere in relazione con l’aumento dell’acquiescenza.
Ecco quindi che gli italiani sono quel che sono, o ancora di più i cinesi: le popolazioni che da più tempo vivono in società complesse (*1) avranno popolazioni geneticamente adattate a vivere in esse.
Mi chiedo se non si arrivi a un punto di rottura: quando i furbi sono troppi (anche se molto ubbidienti almeno apparentemente!) la società invece di essere vantaggiosa per tutti nel suo complesso cessa di esserlo? Insomma se i furbi sono troppi che succede?
Questo senza considerare che forse proprio le posizioni di maggior prestigio e potere vengono particolarmente ricercate dai furbi: questo può provocare un effetto leva al danno normalmente provocato dalla loro astuzia. Del resto il burocrate che vende i permessi per invalidi fa più danni alla società del singolo acquirente. Lo stesso vale ovviamente per il politico corrotto.
Oppure pensiamo a una virtù come il coraggio: in passato l’uomo che col proprio valore riusciva a proteggere più efficacemente la propria tribù doveva essere sinceramente onorato da tutti.
Oggi l’eventuale coraggio fa guadagnare al massimo una medaglia. Capite che evolutivamente adesso, nella società moderna, il coraggio non solo non porta vantaggi ma anzi rischia di essere svantaggioso…
Mentre riflettevo su come sia possibile immaginarsi ogni sorta di degenerazione mi è tornato in mente un video di Barbero che probabilmente ascoltai quando mesi fa rimasi a letto malato per un giorno (!). Barbero leggeva le memorie di un francescano del XVII secolo che fa un viaggio transatlantico su una nave piena di schiavi. Interessantissimo anche se, per i criteri odierni, estremamente razzista. Comunque mi fece sorridere un’affermazione di questo frate secondo cui questi neri non facevano altro che “ballare e cantare” (nelle loro terre, non sulla nave degli schiavisti!). Così ho ripensato alla nascita del jazz e del blues e mi è tornato a mente un vecchio film degli anni ‘90, “Cry Baby” di cui forse prestai (il DVD) all’amico che mi aveva a sua volta dato “Seven”.
È una pellicola ambientata negli USA degli anni ‘50 dove una ragazza di buona famiglia si innamora di un “ragazzaccio” di strada. Non una pellicola rosa ma una di quelle un po’ strane che piacciono a me: comunque con un giovane Johnny Deep, Iggy Pop e Traci Lords.
Ma il motivo per cui mi piaceva quel film è che ero innamorato della protagonista femminile, la semisconosciuta Amy Locane (la ricordo in appena altri due film)…
Conclusione: improvvisamente mi sono così reso conto che Amy assomiglia molto alla Victoria dei Mäneskin!
PS: appena terminato di scrivere questo pezzo ho cercato in rete delle immagini e la somiglianza non mi sembra più così netta (è che Victoria ha un'acconciatura e si trucca in maniera diversa!) come mi sembrava mentre ero semiaddormentato però un po’ c’è...
Nota (*1): per società complesse intendo quelle con più di 300 persone
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