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domenica 25 marzo 2012

Ledificio (5/10)

È buffo: ho tutte le parti del racconto già pronte ma tendo a rimandarne la pubblicazione: il motivo è che mi fa fatica preparare questa piccola introduzione e, soprattutto, il riassunto delle parti precedenti. Niente di creativo: solo noioso. Però, temo, sia essenziale...
Questa è infatti la quinta puntata del racconto Ledificio: vedi anche parte 1, 2, 3 e 4.
Il protagonista, entrato insieme a due compagni in un misterioso edificio, è rimasto solo e non riesce più a uscirne. Non solo: l'edificio sembra essere un labirinto dove strani fenomeni inspiegabili sono all'ordine del giorno...
Inaspettatamente riesce a raggiungere un balcone e a parlare con delle persone all'esterno che cercano di soccorrerlo: pensando che i soccorritori siano ormai arrivati e l'incubo finito il protagonista rientra all'interno dell'edificio riperdendosi però immediatamente al suo interno.

-= 5 =-

Urlai di nuovo: questa volta non per paura ma per la frustrazione. Ero stato a un passo dall'uscire dall'edificio: avrei dovuto solo aspettare qualche secondo in più! Se poi, per qualche motivo, non fossero riusciti a raggiungermi, avrei potuto calarmi dalla finestra o aspettare i pompieri...
Non mi vergogno di ammettere che piansi a lungo per la rabbia, rinfacciandomi la frettolosa stupidità. Lentamente mi resi però conto che, per quanto difficile, era comunque possibile raggiungere l'esterno. Questo mi diede fiducia e la forza di rialzarmi e di ricominciare da capo a vagare in questa specie di incubo senza fine.
Il tempo intercorso, da quando avevo ripreso i sensi a quando avevo trovato il balcone, mi era sembrato dell'ordine delle ore: quattro/cinque, massimo sei. Mi sembrava ragionevole aspettarmi di avere una nuova occasione di fuga in un tempo simile.
Sfortunatamente non fu così. Prima che succedesse qualcosa di nuovo ebbi la sensazione che passassero settimane, forse mesi: è difficile dirlo perché la luce grigia aveva sempre la stessa intensità senza distinzione fra giorno o notte. Io del resto non avvertivo né fame, né sonno, né nessuna altra necessità corporale. A volte ero stanco: ma più che stanchezza fisica era una depressione morale, una sfiducia nelle mie possibilità di salvezza.
Se fossi stato credente avrei avuto molto tempo per pregare ma, siccome non lo ero, mi limitai a pensare e a ricordare.
Lentamente, immagine per immagine, iniziai a rivedere nella mia mente la grande stanza dove ero entrato insieme ai miei amici e, apparentemente, avevo lasciato il mondo reale per questo orrendo limbo. Ancora adesso i ricordi di quei momenti sono tutt'altro che chiari e, inizialmente, furono ancora più confusi. Più che risposte vi trovavo solo nuove domande e dubbi...
Iniziai anche a fare delle ipotesi sul luogo dove mi trovavo ma non voglio tediare il lettore con il lungo elenco di supposizioni che feci: molte delle quali, peraltro, si dimostrarono false e confonderebbero soltanto chi sta leggendo queste mie memorie. Santo cielo! Spero che il professore riesca a leggere quanto ho scritto! Dimostrerebbe che non sono pazzo e che anch'io ho la possibilità di uscire da questo grigio senza fine.

Passò del tempo, molto tempo, e io continuai a vagare: in genere non mi preoccupavo più di seguire una qualche logica. Solo quando ideavo una nuova teoria, che erano arrivate ad essere di una sconcertante complessità, cercavo di verificarla. In genere, dopo una giornata di delusioni più o meno grandi, mi davo per vinto.
In quei momenti cercavo una stanza con una sedia o, meglio, una poltrona e mi sedevo tenendomi la testa fra le mani: mi dicevo che non dovevo abbattermi, che come già una volta avevo trovato un'uscita, prima o poi l'avrei fatto di nuovo...
Trovare sedie, ma anche poltrone, non era troppo difficile: ad occhio una stanza ogni tre ne conteneva almeno una. Spesso ho incontrato anche letti ma non ho mai osato sdraiarmi su di essi. Ho la netta sensazione che rischierei di lasciarmi andare, di perdermi in me stesso, di svanire nei miei ricordi: dopotutto è solo la forza di volontà che mi permette di andare avanti e di tener viva una speranza sempre più flebile. Non posso permettermi di perderla altrimenti impazzirei e diventerei un'altra di queste folli stanze.

Ho anticipato riflessioni che mi ero riproposto di fare solo in seguito: chi sta leggendo queste memorie mi perdoni e ignori il mio piccolo sfogo.

Un giorno, vagando a casaccio e per la verità molto distrattamente, mi ritrovai in un corridoio. Sembrava uno dei tanti: un lungo tappeto consunto stava nel bel mezzo di esso per tutta la sua lunghezza mentre, ai lati, c'erano numerose sedie imbottite, di quelle in legno dorato e lo schienale rosso, invero dall'aspetto piuttosto traballante; sulle pareti, a intervalli regolari, antiche lampade a gas che non emettevano nessuna luce e fra, queste e le sedie, non mancavano numerosi grandi specchi bui dalle cornici anch'esse dorate. Ho tralasciato di menzionare un particolare bizzarro: gli specchi non riflettevano niente: erano tutti di un uniforme grigio completamente opaco. Avevo capito che si trattava di specchi solo dalla forma e dalla cornice.

Giunto a circa un terzo del corridoio mi accorsi della grande porta a due ante nel centro di esso sulla parete sinistra: mi fermai. In un attimo raffrontai i ricordi di quella sciagurata notte, quando con i miei amici entrai nell'edificio, e quello che vedevo pochi metri davanti a me: fui subito sicuro di trovarmi di fronte alla medesima porta. Rimasi incerto sul da farsi, istintivamente mantenevo lo sguardo sulla porta per evitare che sparisse alle mie spalle e contemporaneamente pensavo a cosa fare: entrare a esplorare, come mi diceva la ragione, oppure fuggire via il più rapidamente possibile come mi gridava di fare il mio istinto?

Ero incerto, indeciso fra il dubbio e la paura: fra la possibilità di trovare indizi utili e il terrore di trovare un mostro oscuro, il demone che mi teneva prigioniero.
Fu allora, mentre ero ancora indeciso se fare un passo avanti o uno indietro, che sentii una voce!
Era debolissima, meno di un sussurro, eppure nel silenzio tombale a cui ero abituato mi sembrò più fragorosa di un tuono. Ascoltai meglio: era una voce di donna, implorava aiuto e proveniva dalle mie spalle da giù, dalle interiora del palazzo.

Come ho detto, fino a quel momento, ero stato molto incerto su cosa fare ma quel richiamo disperato mi fece decidere: mi girai e corsi veloce verso la voce...

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