Un libro che a malincuore avevo smesso di leggere per diverse settimane sono le “Lettere a Lucillo” di Seneca: il motivo è che, come al mio solito, l’avevo perso!
In realtà si tratta del mio lettore elettronico: l’avevo inserito in una tasca di una valigetta e l’ho ritrovato solo ieri quando ho usato detta valigetta. Comunque ne ho subito approfittato per leggermi due lettere.
Come si intuisce dal titolo si tratta di una breve raccolta di epistole che Seneca invia a quello che pare essere un amico ma anche discepolo, un po’ più giovane del maestro ma neppure troppo.
Con mio stupore (mi aspettavo altro) le lettere che sto leggendo adesso sono un elogio al suicidio: la morte non va temuta perché si torna al nulla dove eravamo prima della nascita.
Se la vita diventa una sofferenza non c’è motivo per non abbandonarla: ma anche solo se diviene un peso o una noia, allora non ha senso proseguirla per limitarsi a bere, mangiare e dormire.
Siccome sono tirchio ho scaricato la mia versione da LiberLiber.it: si tratta di una traduzione di Annibal Caro del 1802 ed è quindi in un italiano abbastanza pesante. Come al solito occorre un po’ di tempo per farci l’orecchio. Ovviamente il suicidio non è visto di buon occhio dalla religione cristiana così l’editore ha aggiunto qua e là delle note per farci sapere quanto Seneca, nella sua paganità, fosse stolto. Non solo: lo accusa anche, una volta caduto in disgrazia col suo ex allievo, l’imperatore Nerone, di non aver avuto il coraggio di togliersi la vita.
In realtà l’editore non doveva evidentemente aver letto l’intera opera perché in una delle lettere precedenti Seneca spiega (mi sembra in riferimento a Socrate) che se si è condannati a morte e c’è quindi un boia che farà il lavoro per noi allora non c’è motivo di sostituirsi a lui.
In generale ho trovato diverse frasi molto belle, non saprei come definirle altrimenti.
Via, volevo pubblicarle in un’altra occasione ma ormai che le ho menzionate…
«Lauda, et imita colui, al quale non incresce di morire, piacendogli vivere. Perciocchè che virtù è l’uscire, quando sei cacciato?»
Questa è la frase che avevo precedentemente parafrasato: «Prima ch’io nascessi. La morte è il non essere: e questo già so come stia; perché quel medesimo sarà dopo di me, che è stato innanzi a me.»
«[…] nella vita importa non quanto lungo tempo sia durata, ma quanto bene.»
«Temi di morire? Perché credi tu ora di vivere?»
«Infelice che tu sei, poichè servi agli uomini, servi alle cose del mondo, e servi anco alla vita; perciocchè levando la virtù del morire, la vita è una servitù.»
Vabbè, penso di aver dato l’idea dello spirito di queste lettere. Notate però lo stile breve e incisivo: non ci sono argomentazioni lunghissime dove nascondere qualche astuto sofisma: le ragioni a favore del suicidio sono semplici e chiare.
Visto che come “corto” è ormai troppo lungo aggiungo un passaggio che mi ha stupito. Seneca scrive a Lucillo spiegandogli che è stato malato: ha avuto una malattia che, durante delle crisi, gli impedisce di respirare e, quindi, gli dà la sensazione di soffocare. Seneca si dilunga spiegando di come comunque da tempo è pronto alla morte e non la tema solo che, aggiunge, questa malattia è la più fastidiosa che gli potesse capitare.
Questa è una riflessione molto umana ma poco filosofica! Tutti si tende a considerare le nostre disgrazie come le peggiori e, suppongo, Seneca avrebbe quindi detto la stessa cosa anche se avesse perso la vista o magari l’uso delle gambe etc.
Ecco comunque il frammento in questione: «Lungamente ero stato assediato dall'indisposizione, quando di novo in un subito m'assalì. [...] convenevolmente si può chiamar difficultà di respirare. Questo è un impeto assai breve, e simile a una procella, e dura intorno a un'ora; perciocchè chi è che lungamente stenti in mandar fuora il fiato? Io ho bonamente provato tutti gl'incomodi, e tutti gli pericoli che può aver un corpo umano; ma nessuno mi par che sia più fastidioso di questo.»
Conclusione: bel libro, peccato per la traduzione faticosa da leggere...
alla prima stazione
1 ora fa
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