Ieri ho finalmente finito di leggere il noiosissimo capitolo sul “Pregiudizio” del libro di psicosociologia.
L’ho trovato un po’ pesante perché si sente l’influsso graveolente del politicamente corretto che comporta una ricerca spasmodica di vittime e carnefici che, dal mio punto di vista, non sono tali o, almeno, non sempre.
Da una prospettiva più tecnica diffido poi di uno degli strumenti principali usati per “misurare” il pregiudizio: ovvero la velocità di associazione fra immagini che secondo me (ma anche per molti ricercatori come onestamente spiegato anche nel libro che sto leggendo) misura solo la familiarità con un oggetto o concetto. Conoscendo pochissime persone di colore io sono meno familiare con i loro volti e così sarei più lento a fare le varie associazioni: ciò non significa che io sia razzista.
Invece questo sistema, associato poi a esperimenti spesso dubbi, viene usato per dimostrare come TUTTI i bianchi siano razzisti: vabbè…
Per questo motivo non ho intenzione di perdere troppo tempo a elencare tutte le mie perplessità (ovvio che poi ci sono anche risultati condivisibili, ma sono una minoranza rispetto a quelli a mio parere inconcludenti quando non fuorvianti) ma piuttosto voglio approfittare di questa occasione per spiegare il mio punto di vista sul pregiudizio.
Secondo il libro, e io sono d’accordo, il pregiudizio nasce da uno stereotipo associato a un gruppo di persone.
Per la mia teoria uno stereotipo altro non è che un protomito ([E] 2.2): ovvero una semplificazione più o meno articolata di un fenomeno/concetto/oggetto reale.
Sempre secondo la mia teoria i protomiti possono essere più o meno complessi, ovvero accurati: un protomito semplificato all’eccesso è poi detto distorsione ([E] 2.1), il cui nome ricorda appunto che la realtà, enormemente più complessa, è spesso distorta da esso.
I protomiti sono solo dei modelli della realtà e, per questo, intrinsecamente sempre errati se esaminati abbastanza in profondità.
In genere però i protomiti sono sufficientemente corretti da essere utili a chi li utilizza altrimenti perderebbero la loro ragione di essere: i protomiti non vengono usati dalle persone per sfizio o pigrizia ma sono una necessità neurologica atta a semplificare sufficientemente la realtà da renderla manipolabile dalla mente umana. Non per nulla anche il libro conferma che gli stereotipi sono generalmente esatti.
Una conseguenza della mia teoria è che i protomiti sono necessari e non si possono eliminare: da questo punto di vista lo stesso vale per gli stereotipi.
Chiaramente qui c’è un’inconsistenza di terminologia: nel testo si usa la parola “stereotipo” per indicare una descrizione superficiale di un gruppo qualcosa di equivalente alla mia distorsione o comunque a protomiti molto semplici. Il libro non si pone il problema di cosa si ottiene quando la conoscenza diviene più accurata: semplicemente una vaga maggiore consapevolezza. Per me si ha semplicemente un protomito più complesso perché più articolato e che tiene conto di molti più casi ed eccezioni: lo stereotipo non evapora nell’aria, semplicemente non è più chiamato in tal modo.
Dal mio punto di vista il problema del pregiudizio si riduce quindi semplicemente a correggere i protomiti o le distorsioni errati.
Passando dalla teoria alla pratica ci sono almeno due problematiche associate: la prima è che la proprietà ([E] 2.5) dei protomiti più semplici e delle distorsioni è diffusa, cioè di tutti. Nessuno ha l’autorità riconosciuta dalla società per modificare una distorsione perché nessun gruppo la possiede esclusivamente: chiaro che gruppi estremamente potenti, come per esempio il potere politico, possono adoperare la propria forza per cercare di imporre la propria visione (magari con l’aiuto dei media o della “pubblicità progresso”) ma comunque non si tratta di un automatismo. In genere le distorsioni e i protomiti più semplici evolvono naturalmente per andare a rispecchiare la realtà.
In certi casi vi sono dei limiti psicologici che ostacolano questo processo naturale: per esempio se un appartenente a una minoranza compie un reato allora lo stereotipo ne è rafforzato, se invece compie una buona azione viene considerato un’eccezione. Per questo motivo alcuni pregiudizi negativi possono perpetuarsi proprio perché si autorealizzano (la stessa esistenza di uno stereotipo può far sì che chi appartiene al relativo gruppo si adegui a esso).
La seconda problematica è in realtà parallela alla precedente: è difficile, anche per uno stato, imporre un protomito (o una semplice distorsione) che non sia utile. Nella mia terminologia parlo in questo caso di protomiti errati che, quando sono volutamente tali, sono detti fuorvianti.
Quando, per esempio, si dice che l’immigrazione NON fa abbassare il costo della manodopera e cioè degli stipendi si mente: si sta cioè cercando di imporre un protomito/distorsione errato (v. il corto La contraddizione).
Oppure, basandoci semplicemente sui dati della popolazione carceraria (v. per esempio Gli stranieri nelle carceri di Franco Pesaresi su WelForum.it) è vero gli stranieri commettono in proporzione più reati degli italiani: i protomiti/distorsioni che suggeriscono il contrario sono errati.
Insomma il pericolo è quello di voler eccedere e di cercare di sostituire distorsioni errate con altre ugualmente errate ma in direzione opposta. Non credo che in questo caso l’effetto risultante sia uno stereotipo oggettivo ma piuttosto un’estremizzazione della distorsione che si sta cercando di sostituire ma anche di quella che si sta cercando di imporre.
Uscendo dagli stereotipi sulle minoranze si è visto qualcosa di analogo riguardo i protomiti sull’efficacia e sicurezza dei vaccini: alle legittime paure e perplessità della popolazione si è risposto cercando di imporre una verità opposta che, per di più, ha progressivamente smesso di basarsi sui dati medici quando questi hanno iniziato a smentire sempre più clamorosamente la narrativa (ovvero il protomito) dominante. Da una parte, a fronte di una massiccia campagna mediatica monolitica, la maggioranza della popolazione si è adattata temporaneamente (*1) alla nuova “verità” mentre una minoranza più scettica ha iniziato a dubitare della buona fede delle istituzioni.
Insomma dal mio punto di vista molta della ricerca sui pregiudizi ha secondi fini ed è spazzatura.
Poi il pregiudizio errato esiste, in particolare verso le minoranze (vuoi etniche, di orientamento sessuale o di genere (che poi in questo caso minoranza non sarebbe!)), ma questo lo si combatte con la verità, con l’istruzione cioè, per correggerlo e non cercando di sovrapporvi altre distorsioni talvolta anch’esse errate.
La verità è che le democrazie degeneri, ma ormai direi gran parte del mondo occidentale a “trazione culturale” statunitense, non vogliono investire nella cultura e nella formazione per ottenere dei cittadini più consapevoli e maturi perché in tal caso questi si opporrebbero con maggior frequenza alle decisioni non condivise prese sopra la loro testa e, sicuramente, sarebbero meno facilmente manipolabili.
Conclusione: in altre parole, dal mio non umilissimo punto di vista, il pregiudizio errato è si un problema ma secondario rispetto al principale che è la diseguaglianza sociale: se si risolvesse il problema della diseguaglianza ecco che scomparirebbe anche quello dei pregiudizi verso le minoranze ([E] 14.5).
Nota (*1): Ho scritto “temporaneamente” un po’ per ottimismo ma anche perché, come ho scritto, i protomiti e le distorsioni tendono a riflettere la verità e quindi per fare il contrario devono essere continuamente sostenute. È come cercare di fare la pubblicità a un prodotto scadente: quando la campagna pubblicitaria è in corso le vendite si impennano ma appena cessa ecco che anche queste diminuiscono…
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