[E] Attenzione! Per la comprensione di questo pezzo è necessaria la lettura della mia Epitome (V. 1.9.0 "Dolore").
Ho terminato il capitolo di psicosociologia sulla persuasione e ho iniziato il successivo sui gruppi (anch’esso molto interessante) ma oggi non ho voglia di scrivere un pezzo impegnativo così mi limiterò a uno spunto fornitomi da Sartori.
Nell’appendice “Città buona e politica cattiva” Sartori ripercorre a grandi linea la storia della tendenza a indebitarsi degli stati. Premetto che sono abbastanza scettico sulle sue idee economiche chiaramente improntate a un liberismo appena a un passo dal turbo-liberismo attuale: in particolare vede con orrore il debito pubblico e teme l’inflazione (vedi poi). Ma lo scrivo così, da non esperto a mia volta...
Il primo passo mi è estremamente familiare: si tratta del principio inglese “No taxation without representation” che poi divenne una delle basi filosofiche dei contrasti politici fra colonie americane e UK.
Quando i parlamenti erano espressione dei ricchi, che quindi pagavano molte tasse, questi avevano la tendenza a frenare la spesa pubblica.
Dal XX secolo però, con la diffusione del suffragio universale, il parlamento ha iniziato a rappresentare anche i poveri i quali sono tendenzialmente favorevoli alla spesa pubblica (intesa come servizi dello Stato). Il motto è quindi divenuto: “More taxation via representation”.
Con questa caratteristica delle moderne democrazie parlamentari Sartori (che, lo ricordo, scrive nei primi anni ‘90) spiega l’esplosione del debito pubblico negli stati occidentali.
Non so: personalmente ho trovato questo concetto molto interessante. Da una parte mi sembra un meccanismo troppo semplicistico ma dall’altra mi suona abbastanza bene.
In realtà, pensandoci meglio, la mia teoria (v. Epitome) è già pienamente compatibile con questa semplificazione di Sartori.
Per prima cosa andrebbe specificato che i parlamentari fanno gli interessi dei propri elettori solo in determinati periodi storici: l’aumento della spesa non sarebbe quindi una caratteristica intrinseca delle democrazie con suffragio universale ma dipenderebbe anche dall’epoca, da quando cioè (nella mia terminologia; v. l’Epitome) non sono verificate le condizioni di rappresentatività imperfetta. Quando i politici credono nel proprio ruolo di rappresentanti e nella bontà dei propri programmi elettorali allora è possibile che essi cerchino effettivamente di operare per il bene dei propri elettori: in queste condizioni un aumento della spesa pubblica per i servizi può venire approvata.
Nel secondo dopoguerra, quando gli ideali erano più forti e i politici credevano nel loro ruolo, politiche di spesa di sviluppo e a favore della popolazione (tramite servizi) erano più diffuse e hanno portato a un aumento del debito pubblico. Debito (e inflazione) che, come spiega bene il Bagnai, non è il male assoluto ma è stato dipinto come tale, in effetti proprio dagli anni ‘90 in poi, per giustificare i tentativi di ridurlo (in Italia dal governo Monti in poi) con ricette a base di austerità che invece, come prevedibile, massacrando l’economia hanno ottenuto l’effetto opposto.
A mio parere, molto semplicemente, il vero obiettivo della riduzione del debito pubblico, “costi quel che costi”, ha lo scopo banale di far sì che lo Stato rinunci alla fornitura di servizi essenziali da affidare poi a privati in grado di speculare con grande profitto dalla loro gestione. Ovviamente tutto senza controlli e limitazione da parte dello Stato: un “far west” in cui i forti, le multinazionali, possono spremere i consumatori agevolati da regolamentazioni che gli permettono tutto o quasi.
In parallelo si riducono diritti e libertà della popolazione rendendola così più debole e meno capace di reagire agli abusi a favore dei più forti.
Quel “costi quel che costi” è poi particolarmente assurdo visto che ormai anche i cretini dovrebbero essersi resi conto che le politiche a base di tasse e tagli non stanno funzionando ma, anzi, stanno portando l’Italia (ma anche tutti gli Stati che adottano questa politica quando senza che ci siano le condizioni economiche per farlo) al fallimento.
Chomsky commentò che la democrazia in Italia finì con la scelta di Monti come presidente del consiglio: probabilmente aveva ragione.
Conclusione: rileggendo mi sono reso conto di aver saltato molto di palo in frasca. Penso che muoversi come ho fatto da un argomento a un altro sia proprio caratteristica degli INTP e in particolare di Ne. Per me i collegamenti logici e non, sebbene tenuti insieme con ponti di “se” e “ma”, sono implicitamente evidenti ma mi rendo conto che per il lettore occasionale possa non essere così. Temo però che in un pezzo dove non mi propongo di focalizzarmi su un qualcosa di specifico questo mio vagolare sia inevitabile.
Per esempio cosa c’entra il riferimento finale a Chomsky? Dal mio punto di vista la situazione italiana dipende dal fenomeno della decadenza (v. Epitome!) e questa si manifesta anche col collasso degenerativo della democrazia che, concordo con Chomsky, è stato evidente con Monti e le sue politiche contro l’Italia e gli italiani.
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