Voglio scrivere di un’idea che mi è venuta ieri: diciamo che voglio mettere nero su bianco le mie riflessioni via via che le sviluppo. Ancora infatti non ho un parere definitivo al riguardo.
Il punto di partenza è la conclusione del pezzo Borody e gli altri. Copio e incollo:
«Conclusione: in verità avverto sempre di più la futilità di esprimere le mie idee. La gente comune non pensa con la propria testa ma cerca solo conferme alle proprie credenze che poi sono quelle dettate dai media. È quindi inutile perdere tempo ad argomentare e cercare di esprimersi chiaramente: oltretutto le uniche osservazioni che la gente comune considera sono quelle delle autorità vere o presunte e io non sono né l'una né l'altra. E comunque di nuovo, anche qui, solo se non contraddicono quanto vogliono e si sforzano di credere.»
Ovvero: vale la pena scrivere pezzi in cui espongo la mia opinione su argomenti di attualità più o meno controversi oppure è una perdita di tempo?
Essendo io un tizio fuori dalla media lo sono anche le mie opinioni: chi è nella media pensa, mediamente, nella media e viceversa. È una banalità ma assolutamente convincente.
In realtà, nonostante la sua semplicità, è un’idea che ho assimilato solo recentemente: era l’essenza di un video di circa 10 minuti di TED dove l’ospite spiegava che un imprenditore per avere realmente successo non deve fare quello che fanno tutti perché, in quel caso, otterrà solo quello che ottengono tutti…
Comunque il punto è che avendo opinioni fuori dalla media queste non vengono generalmente apprezzate dai miei lettori nella media. Ad aggravare la situazione vi è poi l’Epitome: le ricerche e le riflessioni che mi hanno portato alla sua stesura mi hanno anche reso più ricettivo e critico verso scelte politiche in cui in passato sarei stato meno critico e avrei concesso il beneficio del dubbio.
Banalmente pensiamo ai pezzi che scrissi su Monti nel 2011: mi ci volle circa un anno per dirimire la domanda se Monti “ci fosse o ci facesse”. Al contrario con Draghi, assolutamente equivalente a Monti, non ho avuto dubbi e da subito l’ho giudicato per quel che è.
Questo mi porta a una notevole assertività nelle mie riflessioni che, probabilmente, chi non conosce il pregresso di quanto ho già scritto sia qui sul ghiribizzo che nell’Epitome, troverà o superficiale o arrogante o ingiustificabile ed errato.
Ma del resto io non posso, per ogni pezzo che scrivo, sintetizzare per il lettore occasionale dozzine di premesse e altre riflessioni e solo dopo questo noioso (per me) lavoro preparativo passare al pezzo vero e proprio: mi verrebbero articoli troppo lunghi e, comunque, inevitabilmente salterei qualche premessa. È proprio per questo motivo: per non stare cioè a ripetermi e citare diversi pezzi vecchi che decisi di scrivere la prima versione dell’Epitome la quale, comunque, nel corso degli anni ha assunto vita propria.
In sintesi quando scrivo un pezzo su un fatto di attualità controverso esprimo convinzioni che la maggioranza dei lettori non ha gli strumenti per comprendere, apprezzare e giudicare correttamente.
Un ulteriore esempio possono essere i miei pezzi sul covid-19 che ho seguito con grande attenzione da fine gennaio 2020. Quando scrivo qualcosa al riguardo ho in mente, tanto per intenderci, un 200 dati che ho raccolto in questi anni da altrettanti video e altro materiale assortito: sì, perché come ho già spiegato altrove, ho la caratteristica di ricordare tutto ciò che mi interessa.
L’uomo medio che mi legge invece che informazioni avrà in mente? Tiro a indovinare ma suppongo una ventina: probabilmente avrà completamente dimenticato tutto quanto era stato detto appena tre mesi prima. Avrà in mente il telegiornale del giorno precedente, il commento sentito al bar mentre prendeva un cappuccino, qualche affermazione fatta da un collega “esperto” a lavoro, magari una tabella con dei dati pubblicata da Reppublica.it (della quale ricorderà solo vagamente ed erroneamente i numeri). Diciamo una ventina di dati: esattamente un ordine di grandezza meno di me. È chiaro che con tale prospettiva limitata e angusta non può comprendere pienamente il mio pensiero e, se crede di averlo fatto, probabilmente si inganna ed essenzialmente mi avrà più o meno frainteso.
Quindi, mi chiedevo, vale la pena che io mi sforzi di scrivere questi pezzi destinati, nella maggioranza dei casi, a rimanere incompresi o, peggio, fraintesi?
Alla fine il loro effetto complessivo è quello di farmi perdere lettori mentre io non ci guadagno niente e, anzi, mi irrito osservando situazioni sulle quali non ho controllo destinate ad andare a catafascio a causa dell’ingenuità di una maggioranza troppo facilmente manipolabile dai media tradizionali. Il mio sguardo sarebbe più spassionato se non fossi anche consapevole di dovere pagare le conseguenze personalmente per le cretinerie avallate dalla maggioranza degli italiani.
Allora mi chiedevo: forse potrei evitare di scrivere questi pezzi che non piacciano e che, scrivendoli, mi irritano peggiorando il mio già precario umore.
Non è che rimarrei senza articoli da scrivere: avrei sempre quelli di commento ai libri che leggo, le facezie, le recensioni, le riflessioni su argomenti NON controversi (e dove quindi anche la maggioranza è meno ostile a idee diverse dal solito), sport e calcio, matematica, descrizione di sogni, magari potrei pubblicare foto con commenti divertenti, racconti o (peggio!) poesie…
Del resto gran parte delle mie idee diciamo “controverse” finisce nell’Epitome: non mi censurerei completamente ma, piuttosto, proteggerei il comune lettore occasionale da riflessioni che difficilmente sarebbe in grado di comprendere senza investirci una quantità di tempo che, probabilmente, non ha a disposizione. Già il fatto di scaricare coscientemente l’Epitome implica invece una volontà di venire a contatto con qualcosa di diverso: tale scelta volontaria renderà il potenziale lettore più ricettivo e meno ostile alle mie idee. Oltretutto l’Epitome è strutturata per accostare il comune lettore al mio pensiero: non ci sarebbe cioè quella barriera di informazione sottintesa che, talvolta, può impedire la comprensione di quanto scrivo.
Insomma i vantaggi di questa scelta sarebbero:
- non allontanare lettori occasionali con pezzi che non possono pienamente capire.
- non farmi cattivo sangue evidenziando il disastro della situazione italiana e la mia impotenza a fare qualcosa.
- risparmiare tempo che potrei dedicare ad altro.
Eppure ci sono anche dei meriti nel continuare a scrivere tali pezzi.
La soddisfazione di scoprire (e poter dimostrare) che intellettuali che stimo dicono oggi quello che io avevo scritto ieri.
Un caso lampante e recente è quello di Barbero che equipara il verdepasso a un ricatto e io, già a inizio agosto, avevo scritto Sui ricatti 1 e 2 (*1).
Oppure quando le mie previsioni sul covid-19 si rivelano molto più corrette di quelle degli “esperti”: che soddisfazione!
Se però non avessi scritto i pezzi in cui espongo le mie teorie la soddisfazione sarebbe estremamente minore: sembrerebbe più un vanto borioso (“non l’ho scritto, ma avevo pensato esattamente la stessa cosa!”)… quante persone infatti non riescono a distinguere le loro vecchie idee da quello che è l’ovvio senno di poi? È anzi un effetto psicologico noto quello di illudersi di aver pensato o detto qualcosa che poi si dimostra vero. Se però io posso rimandare a un pezzo scritto mesi prima ecco che il vanto assume tutto un altro spessore.
Per esempio il 5 aprile del 2020 scrissi Libertà e salute che già analizza l’essenza del rapporto fra salute e libertà quando, all’epoca, nessuno ancora ci pensava. Anche questo per me è fonte di soddisfazione: essere arrivato primo. E non prima della maggioranza degli italiani, per questo ci vuole così poco che può essere motivo di vanto solo per uno stupido, ma prima di parecchi intellettuali che stimo.
Infine c’è un altro aspetto, direi morale: è giusto di per sé che io testimoni con le mie parole ciò che penso. Questo sarebbe in pratica un imperativo categorico e quindi ragione più che sufficiente per scrivere quello che scrivo: anzi sarebbe moralmente sbagliato non farlo.
E comunque è vero: sono solo un granello di sabbia nel torrente che è il pensiero maggioritario. Non influisco per niente sulle idee degli italiani: eppure se anche pochi mi leggono, o magari scorrono solo le prime frasi per capire dove vado a parare, comunque dimostro che esiste un pensiero alternativo: io non sarò capito né letto ma, forse, rendo indirettamente più credibile le idee di intellettuali famosi che hanno, loro sì, la possibilità di incidere, seppure marginalmente, sulle convinzioni degli italiani.
Quindi?
La forte sensazione (vedi l’imperativo categorico discusso sopra) è che dovrei comunque continuare a scrivere quello che penso pur se i pro e i contro sembrano equivalersi: ma voglio tentare un approccio pratico al problema. Per due settimane eviterò di scrivere sul ghiribizzo di politica, covid-19, immigrazione e altri eventuali argomenti caldi e/o controversi.
Passato questo periodo vedrò di trarne delle conseguenze per verificare se i pro e i contro che avevo ipotizzato sono reali oppure immaginari.
Ecco, forse due settimane sono troppo poche ma almeno un’idea dovrebbero darmela.
Quindi fino al 25 settembre mi censurerò un po’…
Conclusione: non ne sono molto convinto ma voglio comunque tentare questo esperimento...
Nota (*1): si potrebbe obiettare che Barbero non è un virologo ma uno storico: questo è vero, Barbero non è un virologo né un medico e quindi non è un esperto di medicina; egli è però un esperto di storia ed è quindi in grado di riconoscere i prodromi di un fascismo. La sua obiezione al verdepasso non è medica ma storica: ne riconosce chiaramente l’immoralità e i relativi pericoli.
Il figlio della Concetta
12 ore fa
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