Probabilmente dovrei scrivere un’altra puntata di “Indietro su Sartori” per cercare di rimettermi in pari sulle cose interessanti che ho letto: però fra poco devo uscire e non mi va di mettermi a scrivere un pezzo che rimarrebbe in sospeso per tutta la giornata e che dovrei finire stasera quando magari non ne avrei voglia.
Allora voglio tentare un “Semicorto” e accennare a The framers’s coup di Michael Klarman: un libretto di 800 pagine e, oltretutto, scritte con un carattere minuscolo mentre le pagine sono in un formato più grande del solito…
Il libro descrive le sedute del congresso di Filadelfia che portano alla stesura di quella che diventerà la costituzione degli USA.
In ogni pagina sono riportate le “voci” dei protagonisti. All’epoca i lavori furono tenuti segreti ma diversi delegati presero appunti anche molto dettagliati. È interessante perché emergono chiaramente i giochi politici con cui i partecipanti cercano di raggiungere i propri obiettivi che, nella maggior parte dei casi, equivalgono a quello che ritengono meglio per il bene della nazione nel suo complesso ma anche, e forse soprattutto, degli stati (ex colonie) che rappresentano.
Insomma questo libro può essere visto anche come un grande esempio di politica applicata o pratica.
Ho più volte ripetuto dell’analogia fra costituzione USA e quella della UE: molte problematiche erano simili, spesso uguali, ma i padri fondatori americani le gestirono in maniera molto più equilibrata e corretta dei nostri moderni politici.
Tutti i delegati di Filadelfia avevano infatti l’obiettivo principale di tutelare gli interessi del proprio stato di provenienza e, subito dopo, quello di creare una nazioni forte in grado di resistere alle sfide del tempo e, in particolare, alle ingerenze economiche e (potenzialmente) militari delle potenze europee (Regno Unito, Francia e Spagna).
Per la UE invece le cose sono andate diversamente: vuoi per impreparazione culturale, vuoi per incapacità, vuoi per disinteresse nel cercare di raggiungere gli accordi migliori per tutti, in diverse questioni centrali si sono raggiunte delle intese sbilanciate a favori di pochi e che, inevitabilmente, a decenni di distanza continuano a generare problemi sempre più grandi.
Tanto per fare un esempio le ultime dieci pagine circa riguardano la rappresentanza dei vari stati nella camera alta. Infatti, oltre a una camera bassa eletta dalla popolazione, era prevista anche una camera alta (il senato) che avrebbe dovuto rappresentare i diversi stati.
Le 13 ex colonie americane non erano infatti tutte uguali: vi erano quelle con un economia agricola, altre basate sul commercio e altre sulla pesca; alcune erano (relativamente) molto popolose mentre altre no; alcuni avevano dei territori vastissimi e altri molto piccoli. Certo avevano anche importanti elementi in comune: la lingua, la cultura, la religione cristiana, interessi militari per la difesa sia verso gli indiani che, soprattutto, dalle ingerenze europee.
Ma soprattutto gli interessi economici erano molto diversi e, talvolta, contrastanti.
Se il numero dei rappresentanti per Stato fosse stato basato sulla popolazione allora gli stati meno popolosi temevano che non avrebbero contato niente e che pochi grandi stati si sarebbero potuti accordare insieme per imporre la loro volontà. Da notare che, come normale, davano per scontato che ogni Stato avrebbe tentato di cercare di tutelare al massimo il proprio interesse: non c’erano atteggiamenti fideistici, come da noi, in cui si dà automaticamente per scontato che tutto quanto venga deciso dall’EU sia a favore dell’Italia e non nell’interesse dei paesi che ne tengono le redine politiche. È un’ovvietà ma, almeno in Italia, vi è l’ipocrisia di non ammetterlo: siamo come un pugile chiuso in un angolo che sta prendendo una gragnola di colpi ma tiene comunque la guardia abbassata, sorridendo come un ebete, per cercare di dare a intendere di ricevere non pugni ma carezze…
Ovviamente i grandi stati obiettavano che non era giusto nei confronti della propria popolazione che la rappresentanza fosse fissa: questo sistema era stato adottato durante la guerra col Regno Unito ma all’epoca vi era un’evidente emergenza.
E allora i piccoli stati rispondevano che i grandi Stati si sarebbero accordati fra loro mentre questi ultimi replicavano che i loro interessi erano così diversi che non sarebbe potuto accadere. Solo che poi nei fatti, già durante questi lavori, si vedevano alleanze fra i delegati dei grandi stati opposte a quelli dei piccoli: insomma il problema era reale e non ipotetico.
Molto interessanti le varie argomentazioni, pro e contro, dei delegati: fanno capire quanto i punti di vista possano essere molteplici su questioni all’apparenza molto chiare e definite.
Curiosamente alla fine si decise di accettare una rappresentanza degli stati legata alla popolazione a causa di un errore di calcolo. Tutti i delegati erano all’epoca convinti che la popolazione degli stati del sud sarebbe cresciuta più di quella del nord: per questo anche stati del sud poco popolosi votarono a favore di una rappresentanza basata sulla popolazione facendo aggiungere la condizione che, periodicamente, si verificasse il numero degli abitanti per adeguarla alle sue variazioni.
In realtà tale previsione si rivelò completamente errata a causa dell’immigrazione proveniente dall’Europa: i nuovi immigrati infatti si dirigevano dove avevano le migliori prospettive economiche e di lavoro, quindi non nel sud dove c’era la concorrenza del lavoro degli schiavi…
Conclusione: comunque, tornando all’analogia fra UE e USA, le due differenze più grandi e sostanziali, che in pratica spiegano tutta l’inconsistenza del modello europeo, sono la mancanza di una politica fiscale diretta e l’assenza di una forza militare comune. Ma oggi non voglio/posso scrivere altro...
Il figlio della Concetta
12 ore fa
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