Pochi giorni fa mi sono comprato un libretto molto interessante che ho già finito di leggere: Il fascismo degli antifascisti di Pier Paolo Pasolini, (E.) Garzanti, 2018.
Si tratta di una breve raccolta di otto articoli, pubblicati su vari quotidiani nella prima metà degli anni ‘70, legati da un tema comune: il fascismo.
Prima di addentrarmi nell’analisi del testo vero e proprio voglio però confrontare le sensazioni che mi hanno dato le figure di Ennio Flaiano (v. Introduzione al satiro) e Pasolini: vi ho infatti trovato delle singolari similarità, insomma la solita serendipità che mi affascina sempre...
Flaiano aveva una grande sensibilità nel percepire i cambiamenti della società: politicamente mi è però sembrato piuttosto distaccato (così a memoria ricordo un solo frammento prettamente politico: v. La libertà del satiro). Riconosce i limiti di PCI e DC e ne rimane sostanzialmente equidistante. L’aspetto politico è secondario nella sua visione dell’Italia che cambia. Non manca poi di umorismo e di un lirismo, spesso nascosto ma che di tanto in tanto emerge esplicitamente.
Pasolini ha una sensibilità nella percezione dei mutamenti della società paragonabile a quella di Flaiano ma con una particolare attenzione all’aspetto politico: non si limita poi a notare il cambiamento ma se ne chiede il perché. Pasolini è schierato a sinistra col PCI ma non ne va al rimorchio e resta un pensatore indipendente (un “intellettuale critico” insomma, [E] 3.5). In un paio di pezzi critica apertamente Berlinguer. La DC è però nettamente peggio: nell’ultimo articolo del libro la paragona esplicitamente a una forma di fascismo, anzi la considera la continuazione vera e propria del fascismo “archeologico” (vedi poi). Di umorismo in questi pezzi ne ho notato poco poco, qualcosa nel primo articolo forse, ma proprio un accenno: dalla biografia so che è stato anche un poeta ma in questi articoli, a differenze di quelli di Flaiano, non si percepisce.
Curiosamente entrambi gli autori hanno avuto a che fare col cinema: Flaiano come sceneggiatore di Fellini e Pasolini direttamente come regista.
Entrambi hanno poi osservato e riconosciuto un profondo mutamento nella società italiana: Flaiano lo data negli anni ‘60 e Pasolini, più o meno, nel 1965.
Ecco, volendo un’altra differenza fra i due è che, mentre entrambi si accorgano del cambiamento culturale della società, soltanto Pasolini cerca con pertinacia di comprenderne le cause: come vedremo infine le trova e ne è grandemente preoccupato.
Venendo al libretto vero e proprio, come spiegato, è composto da otto articoli scritti e pubblicati nei primi anni ‘70 e, più o meno, tutti affrontano il tema del fascismo da diverse prospettive.
La brevissima introduzione all’opera, un paio di paginette, spiega che per Pasolini esistono tre forme di fascismo.
La prima forma di fascismo è quello storico di Mussolini & C., lo considera ormai culturalmente superato e, proprio per questo, ormai irripetibile. Il MSI ne è la continuazione ideale ma, proprio per questo, essendo ispirato a qualcosa di profondamente superato, non ha futuro né speranze di essere determinante nella politica italiana.
La seconda forma di fascismo è quello dei giovani dell’epoca: è un fascismo puramente nominale nel senso che non ha niente a che vedere, ideologicamente, con quello “archeologico” (così Pasolini chiama il fascismo del ventennio). Anzi, secondo Pasolini, i giovani che si dichiarano fascisti in realtà condividono la stessa cultura del resto della gioventù italiana (vedremo poi di che “cultura” si tratta): la scelta di campo politico è più che altro una forma di ribellione nei confronti della società.
In alcuni articoli Pasolini è piuttosto comprensivo con questi giovani: il loro essere fascisti non è genetico né culturale ma una scelta, sebbene irresponsabile, praticamente quasi casuale. In un altro articolo è invece molto più duro e li definisce neonazisti. Potrebbe essere la naturale evoluzione del pensiero di Pasolini o, magari, rileggendo più accuratamente di quanto io non abbia fatto, le due visioni potrebbero essere conciliate insieme: non saprei…
La terza forma di fascismo è però quella che ho trovato decisamente più interessante. Pasolini precorre i tempi di 20-30 anni e, pur senza riuscire bene a definire bene i contorni del problema (egli stesso ne è consapevole e lo ammette), nel complesso riesce comunque a centrarlo.
Pasolini si rende conto che gli italiani sono culturalmente cambiati: i loro ideali non sono più la Chiesa, la patria, la famiglia, l’ubbidienza, il risparmio e la moralità.
Il benessere degli anni sviluppatosi negli anni ‘60 ha cambiato gli italiani facendo degenerare tali valori (sul rapporto fra benessere e morale vedi [E] 5.3 e 11.3) valori: la religiosità è divenuta superficiale e apparente, la patria un’opportunità di arricchimento, la famiglia non è più sacra e immutabile, l’ubbidienza un male necessario al quale derogare appena possibile, il risparmio si è trasformato in voglia di arricchimento e la moralità si è piegata alle esigenze dei nuovi tempi.
Ma da cosa deriva questo cambiamento? Per Pasolini non è il risultato spontaneo dei tempi che cambiano ma vi vede un “Potere”, che lui stesso non sa bene definire, ma abbastanza evidente col senno di poi: «Scrivo “Potere” con la P maiuscola… ...solo perché sinceramente non so in cosa consista questo nuovo Potere e chi lo rappresenti. S semplicemente che c’è. Non lo riconosco più né nel Vaticano, né nei Potenti democristiani, né nelle Forze Armate. Non lo riconosco più neanche nella grande industria. Perché essa non è più costituita da un certo numero limitato di grandi industriali: a me, almeno, essa appare piuttosto come un tutto (industrializzazione totale), e, per di più, come tutto non italiano (transnazionale)» (*1).
Nella mia Epitome il “Potere” delineato da Pasolini equivale chiaramente ai parapoteri ([E] 4.2) esteri che influenzano dall’esterno, confrontandosi con i parapoteri politici locali, le criptocrazie ([E] 11.5) (Italia compresa).
L’aspetto più interessante e sorprendente dell’analisi di Pasolini è che all’epoca in cui scriveva ancora non si poteva parlare propriamente di globalizzazione. Questo mi ha portato a riflettere su come spiegare questo apparente anacronismo. In effetti in campo economico l’Italia era ancora una piccola fortezza chiusa (dove, ad esempio, la FIAT deteneva una percentuale bulgara nel mercato delle auto italiano); inoltre l’equilibrio fra le due superpotenze USA e URSS si traduceva, nei paesi occidentali, in una maggiore libertà e contemporaneamente gli ideali (protomiti di libertà, democrazia, giustizia, etc...) della seconda guerra mondiale non erano ancora dimenticati.
Ma allora come si può spiegare il fantasma di questo potere percepito da Pasolini? Quale forza stava trasformando gli italiani in assenza della globalizzazione?
Il fatto è che sebbene la globalizzazione economica propriamente detta ancora non esistesse c’era già, almeno nel mondo occidentale, una globalizzazione della cultura. Pasolini parla di “conformismo” ma il significato è lo stesso: il mondo occidentale stava già venendo colonizzato dagli ([E] 6.2) epomiti giunti dagli USA: in particolare dal consumismo. In altre parole i protomiti americani (e quindi caratteristici dei parapoteri economici poi diventati dominanti con la globalizzazione vera e propria), di una società cioè dove i parapoteri economici avevano già una forza significativa, hanno iniziato a colonizzare l’Europa ben prima della globalizzazione economica.
Il meccanismo si basa sull’imitazione dei modelli esaltati dal cinema e dalla televisione (*2).
Copiare i modelli di successo è caratteristico dell’essere umano ([E] 1.3): il problema (o se vogliamo la conseguenza) è che proprio nel comportamento vengono già vissuti i valori sebbene ancora non percepiti come tali: il passaggio successivo è quello di promuovere il valore espresso dal comportamento a vero principio; contemporaneamente i valori tradizionali in contraddizione con i nuovi comportamenti, inaridiscono e si svuotano di significato ([E] 5.3). Alla fine, più o meno dopo una generazione, ci può essere una vera e propria sostituzione di valori morali.
Ciò di cui Pasolini è particolarmente preoccupato è la pervasività di questa nuova cultura che attraversa tutte le fasce sociali (per questo secondo Pasolini c’è una differenza solo nominale fra giovani fascisti e non: alla fine la cultura e i valori sono gli stessi).
Secondo Pasolini il fascismo aveva avuto un impatto culturale solo superficiale sugli italiani: questi partecipavano alle manifestazioni del regime da “bravi fascisti” ma tornati a casa si toglievano la maschera e tornavano loro stessi (*3).
Invece: «Non si tratta più, come all’epoca mussoliniana, di una irreggimentazione superficiale, scenografica ma di una irreggimentazione reale che ha rubato e cambiato loro l’anima. Il che significa, in definitiva, che questa “civiltà dei consumi” è una civiltà dittatoriale. Insomma se la parola fascismo significa la prepotenza del potere, la “società dei consumi” ha ben realizzato il fascismo.» (*4)
Qua e là nelle mie note ho inserito vari punti interrogativi quando veniva ventilato il concetto “civiltà dei consumi = fascismo”. L’uguaglianza proposta da Pasolini infatti non mi è chiarissima: alla fine tutto dipende dalla definizione di “fascismo”. Suppongo che in altri articoli, più centrati sul consumismo, abbia ampliato e chiarito questo concetto, non so…
Comunque, da quello che ho capito, l’aspetto tirannico del consumismo è nella sua falsa tolleranza: falsa perché equivale a una libertà solo apparente visto che può essere limitata in qualsiasi momento: «...la vera intolleranza è quella della società dei consumi, della permissività concessa dall’alto, che è la vera, la peggiore, la più subdola, la più fredda e spietata forma di intolleranza. Perché è intolleranza mascherata da tolleranza. Perché non è vera. Perché è revocabile ogni qualvolta il potere ne sente il bisogno. Perché è il vero fascismo da cui viene poi l’antifascismo di maniera: inutile, ipocrita, sostanzialmente gradito al regime.» (*5)
Beh, sull’antifascismo “di maniera” di Pasolini ci sarebbe da scrivere un altro pezzo: ma per oggi ho già scritto più che abbastanza e preferisco fermarmi adesso...
Mi rendo conto di aver kappagibbizzato Pasolini mescolando insieme le sue teorie con le mie: scusatemi di solito cerco di separare bene il mio pensiero dall’altrui ma in questo caso non ci sono riuscito! Occhio quindi: non tutte le affermazioni qui riportate sono di Pasolini, alcune sono mie elaborazioni basate sul suo pensiero…
Conclusione: una vera e propria miniera di idee e conferme: basti pensare al parallelo che si può fare fra il mio capitolo [E] 13.3 sulla moderna "deriva morale" e la visione della "civiltà dei consumi" di Pasolini. Mi rendo conto che il concetto di intellettuale organico e critico ([E] 3.5) è fondamentale. Leggere le idee degli intellettuali critici è utilissimo, molto meno, quasi fuorviante, leggere gli intellettuali organici.
Nota (*1): tratto da Il fascismo degli antifascisti di Pier Paolo Pasolini, (E.) Garzanti, 2018, pag. 32.
Nota (*2): pur all’inizio degli anni ‘70 Pasolini percepisce chiaramente l’incredibile forza di questo mezzo di comunicazione. O mi confondo con Flaiano? Mi è venuto il dubbio!
Nota (*3): questa visione della presa del fascismo sugli italiani è confermata anche da Fascisti di Giordano Bruno Guerri (v. Introduzione al pezzo sul fascismo e seguenti).
Nota (*4): ibidem, pag. 73-74.
Nota (*5): ibidem pag. 78-79.
alla prima stazione
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