Stamani ho aggiunto le parole che non conoscevo (o che volevo approfondire) alla mia base dati di Anki (*1). È stata una buona mandata: tante parole, dei campi più disparati, alcune anche molto interessanti…
Vabbè, credo che sia quindi venuto il momento di scrivere il mio pezzo a commento de La solitudine del satiro di Ennio Flaiano, (E.) Adelphi, 1996 (è postumo).
Come ho più volte ripetuto quest’opera, scelta per impulso dalla libreria di casa, mi è piaciuta molto sia nella struttura che, soprattutto, nel contenuto.
La struttura è quella di una collezione di pensieri e di brevi articoli di giornale: tutto sommato ricorda molto quella di un ghiribizzo. Si legge bene perché si tratta di frammenti in genere di una pagina o meno e, raramente, poco più lunghi.
Ma, come detto, è soprattutto il contenuto che ho trovato piacevole. Gli argomenti sono vari: forse prevalgono i ritratti della società del tempo (la maggior parte dei frammenti sono della fine degli anni ‘50 e inizio anni ‘60 con una piccola parte degli inizi degli anni ‘70). È un Italia familiare ma contemporaneamente già un po’ aliena: è un’Italia che cambia volto rapidamente, che si trasforma, diventa industriale, con gli eccessi e i peccati di un rapido benessere, sempre vittima delle proprie contraddizioni.
Un piccolo esempio: in un frammento viene citato anche Alberto Sordi come (cito a memoria) “un giovane attore che interpreta la gioventù moderna”. Ecco si ha la sensazione di essere a uno specchio e di vedere la stessa Italia che da una parte è il presente proiettato nel futuro di Flaiano e dall’altra il nostro passato.
È difficile essere specifici. Comunque ottimo il “pennello” dell’autore che riesce a descrivere con pochi tratti diverse psicologie umane e la mentalità del tempo.
Gli esempi sarebbero tantissimi: così, senza pensarci troppo, mi viene in mente, un articolo molto divertente in cui si sovrappongono due storie. Nella prima l’autore racconta il suo tentativo di farsi installare nel giardino di casa una “moderna” lampada al neon; la seconda, che riempie i titoli dei giornali e della televisione, è il lancio di un satellite. L’installazione della lampada procede con tutte le disavventure possibili e immaginabili ma, a sera, c’è sempre il quotidiano bollettino sui progressi del satellite. È qui evidente la contraddizione di un paese proiettato nel futuro ma dove comunque resta un’impresa riuscire a montare, e a far funzionare, una semplice lampada al neon!
Ah! dimenticavo! Tutti gli articoli sono pervasi dell’ironia dell’autore, un osservatore distaccato ed equilibrato capace di cogliere gli eccessi e quindi gli aspetti più ridicoli del tempo. Ovviamente si respira anche un certo rimpianto (talvolta, mi ha colpito perché ante litteram, non privo di motivi ecologisti) verso il passato e contrario alla bruttura di molte innovazioni.
Personalmente ho avuto la sensazione che l’autore fosse un pensatore eccezionalmente indipendente e intellettualmente onesto che politicamente non si riconosceva in nessuna delle forze politiche del tempo: non che fosse un nostalgico del fascismo, assolutamente no! Ma vedeva chiaramente i limiti e le ipocrisie dei partiti italiani. Probabilmente gli sarebbe stato facile schierarsi da una parte politica per ottenere maggiore successo ma è chiaro che gli interessava la libertà di esprimere il proprio pensiero e non l’apprezzamento di una cultura autoreferenziale. Dopotutto chi scrive per il successo immediato, per il grande pubblico, esprime idee già vecchie e scontate perché, altrimenti, non comprensibili né apprezzabili da esso…
Al riguardo c’è un pezzo sul “Festival del Cinema di Venezia” dei primi anni ‘70 quando si svolge anche un “contro Festival” e dove… anzi: invece di riassumerlo facendogli perdere tutta la sua efficacia, ne ricopio un pezzetto significativo: «Quello che viene chiamato il contro-Festival ha risuscitato, come leggo in un giornale, il “clima partigiano” fra gli aderenti: forse un po’ in chiave di commedia, secondo la nota legge di Marx sulla ripetizione degli eventi storici. Tuttavia ai sono visti registi e autori dedicarsi a colpi di mano e azioni da commandos, come negli anni di guerra, per trafugare e trasportare un film, mettendo a repentaglio anche i loro yachts personali, poiché tra gli idealisti, ai quali mi inchino, c’è anche gente ormai affermata, ossequiata, inserita nel più calmo benessere e amareggiata soltanto dal contegno del fisco.»(*2)
Beh, nel suo contesto è ancora più incisivo: però denuncia bene e, anzi preannuncia, quella classe di intellettuali da salotto, che se la cantano e se la suonano, che si applaudono a vicenda e ostracizzano come reazionario tutto ciò che non è allineato col loro pensiero fintamente progressista: perché, ci pensavo mentre ricopiavo il testo precedente, gli intellettuali benestanti e pasciuti, inseriti e venerati dalla società saranno obbligatoriamente intellettuali organici (v. nota 148 di [E] 3.5 (*3)) e non certo critici.
Ecco, al contrario Flaiano era un intellettuale critico: questo spiega il suo velato disprezzo per gli intellettuali organici che, a loro volta suppongo, dovevano invidiarlo e detestarlo proprio perché poteva permettersi di essere onesto con se stesso e i propri lettori. Ma questa è una mia personalissima sensazione/intuizione: prendetela per ciò che vale, cioè zero.
In un altro pezzo, inutile appesantire troppo questo, scorrerò le mie note sul libro per riportare i tanti dettagli e le curiosità che mi hanno colpito…
Conclusione: ah! Fra le amicizie di Flaiano c’erano anche Cardarelli (“il più grande poeta morente”!) e Fellini. Interessantissimi i pezzi dove Flaiano rivela i retroscena della produzione della “Dolce vita” alla quale contribuì in prima persona.
Nota (*1): il programma che uso per tenere allenata la memoria. Non ho voglia di cercarne i (numerosi) collegamenti: chi è interessato usi il marcatore “memoria”…
Nota (*2): tratto da La solitudine del satiro di Ennio Flaiano, (E.) Adelphi, 1996, pag. 358.
Nota (*3): per comodità riporto qui di seguito la mia nota 148: «Ci si potrebbe chiedere quale sia il ruolo degli “intellettuali” nella diffusione di protomiti e distorsioni: i liberi pensatori non ci danno forse una visione oggettiva della realtà? Assolutamente no: storicamente gli intellettuali hanno sempre tramandato (giustificandola e, magari, interpretandola a proprio vantaggio) la visione del mondo caratteristica dei potenti della propria epoca. Solo recentemente gli intellettuali possono avere un'indipendenza economica che possa permettere loro di esprimere liberamente ciò che pensano. Per questo motivo solo negli ultimi anni, diciamo dal XX secolo in poi, ha senso distinguere fra intellettuali organici e critici: gli intellettuali organici sono quelli funzionali al potere costituito e che, in genere, lo esaltano e lo giustificano; quando un intellettuale organico critica un parapotere lo fa solo perché sta seguendo le indicazioni di un altro forte potere che gli ha dato il compito esplicito di farlo. Gli intellettuali critici sono invece quelli sostanzialmente indipendenti e che danno quindi la propria onesta visione del mondo: proprio per questo, sono utilissimi alla democratastenia mentre vengono parimenti ostacolati dei parapoteri; anche oggi gli intellettuali critici sono una sparuta minoranza perché comunque è più facile e conveniente seguire la corrente e uniformarsi al pensiero dominante piuttosto che sostenere verità invise ai potenti.»
L'esempio di Benjamin Franklin
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