Sto scrivendo un pezzo piuttosto impegnativo, beh in realtà l’ho praticamente finito ma ho la sensazione che dovrò rimaneggiarlo abbastanza e ora non ne ho voglia…
Curiosamente pochi giorni fa avevo scritto un altro pezzo e stavo per pubblicarlo quando, dopo aver fatto per scrupolo ulteriori controlli, ho avuto dei ripensamenti e, nel dubbio, ho preferito lasciare perdere…
È raro che succeda perché di solito, essendo molto pigro, non mi piace perdere quello che faccio!
Ne approfitto quindi per scrivere questo pezzo decisamente più facile: ieri sera ho finito di leggere La scimmia nuda di Desmond Morris, (E.) Bompiani, 1990, trad. Marisa Bergami.
Come spiegai recentemente in I libri formano mi ero improvvisamente reso conto di quanto questo libro, letto quando facevo le medie, mi avesse influenzato. Per questo, volevo “omaggiarlo” scegliendone un passaggio da inserire come epigrafe nella mia Epitome.
Beh, questo libro è invecchiato malissimo!
Prima di tutto è particolarmente vittima del paradosso dell’Epoca: l’autore vede la propria epoca (gli anni ‘60) e la propria nazione (gli USA) come il culmine della civiltà umana: quasi che la storia dell’uomo con i suoi millenni di evoluzione fosse destinata a creare la “superiorità” del mondo occidentale. Una perfezione ormai anacronistica in cui, per capirci, la maggior parte delle donne non lavora, porta la gonna e le acconciature dei due sessi sono profondamente diverse. Questi sono solo tre particolari che ricordo a memoria ma il libro ne è pieno. Questo porta a un paradosso: se la tesi del libro è quella che l’evoluzione umana porti inevitabilmente a questi aspetti sociali allora perché questi non sono più validi (visto che oggi la maggior parte delle donne lavora, indossa indifferentemente gonne o pantaloni, e le acconciature sono molto più simili)? L’unica spiegazione è che la teoria dimostrata dall’autore non sia corretta!
Inoltre molte delle argomentazioni dell’autore partono dall’ipotesi che l’uomo abbia attraversato un fase evolutiva in cui fu un cacciatore dotato di una base fissa a cui tornare e dove lo aspettavano le femmine.
Attualmente certezze sulla nostra preistoria non ci sono più: si ammette che i dati concreti sono così pochi che si possono solo fare ipotesi.
La tendenza però è quella di ridimensionare l’attività venatoria dei nostri antenati: apparentemente molto più raccoglitori. Ma soprattutto, proprio perché vivevano di caccia e raccolta, avevano bisogno di un territorio molto esteso: erano quindi nomadi e senza basi fisse.
Gli insediamenti stabili sono invece legati all’agricoltura: è questa che spinge la società umana a difendere strenuamente il proprio territorio per non perderne le risorse faticosamente accudite e lavorate e senza le quali, incapace di procurarsi altrimenti mezzi di sussistenza, è destinata a soffrire la fame. Quando l’uomo era sostanzialmente nomade anche un confronto violento con un’altra tribù poteva portare, al peggio, a doversi trasferire in un territorio più sfavorevole: non era però questione di vita o di morte come divenne poi la difesa dei propri campi coltivati.
Inutile dire che il basarsi su queste premesse errate getta molti dubbi sull’accuratezza delle conclusioni dell’autore.
In verità solo occasionalmente mi sono sentito completamente convinto dai suoi risultati: ad esempio in un capitolo spiega che l’uomo comune è capace di creare veri rapporti sociali solo con un centinaio di persone: la stessa argomentazione è ripresa praticamente identica da Harari che poi l’amplia ulteriormente introducendo l’importanza della nascita della realtà multisoggettiva.
Eppure questo testo ha comunque almeno due grandissimi pregi.
Il primo è quello di aver fatto pienamente scendere l’uomo dal piedistallo su cui (complice la religione) si era arrampicato: l’uomo è un animale, per la precisione uno scimmione. Questa verità biologica ci condiziona molto più di quanto si possa pensare ed è il concetto che assorbii così profondamente da ragazzino.
Il secondo merito è in realtà fortemente legato al precedente: non mi stupirei se questo libro fosse considerato una pietra miliare della psicologia evolutiva. Ovvero della psicologia che spiega il comportamento umano considerando le necessità evolutive che, per centinaia di migliaia di anni, ne hanno condizionato le scelte. Come detto molte delle conclusioni a cui giunge l’autore sono dubbie ma il principio che usa per arrivarci, rifarsi cioè alla natura biologica dell’uomo, è corretto.
Alla fine, l’unico passaggio che mi è piaciuto e che ho trovato appropriato per trarne un’epigrafe, è proprio l’inizio del libro: un po’ banale! Si potrebbe sospettare che io abbia letto solo la prima pagina dell’opera mentre invece l’ho letta tutta!
Curiosamente un altro passaggio che ho trovato QUASI adatto per l’Epitome è nella pagina finale dove l’autore traccia le proprie conclusioni: in particolare accenna al concetto di “limiti dell’uomo” (e chi ha letto, o provato a leggere, la mia opera capirà perché ho “drizzato” le orecchie!) ma sfortunatamente non ho trovato frasi sufficientemente incisive e autoconclusive…
Conclusione: sono contento di aver riletto questo libro anche se, sostanzialmente, non l’ho trovato utile come speravo. È stato poi buffo rileggere, a distanza di tanti anni, il capitolo sul sesso con le sue vivide descrizioni che, comprensibilmente, mi aveva particolarmente attratto da ragazzino: ancora ne ricordavo diversi passaggi praticamente a memoria!
L'esempio di Benjamin Franklin
36 minuti fa
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