Sto guardando su Netflix una serie drammatica ambientata in un liceo americano: “13 reasons why”.
La trama racconta il crescendo di disavventure di una ragazza e le sue relazioni con diversi compagni di scuola. Vengono così mostrati varie tipologie e stereotipi di studenti: ci sono gli sportivi, gli omosessuali, i bulli, i “dark”, i secchioni e, ovviamente, i “nerds”, cioè gli imbranati.
Gli imbranati non sono stupidi, anzi! Solo che hanno difficoltà ad accettare e conformarsi alle regole non scritte della scuola: non hanno gli interessi degli altri studenti né si comportano né vestono come loro e questo porta alla loro emarginazione dalla vita sociale. Gli imbranati se ne rendono conto e ci soffrono perché invece vorrebbero essere accettati per quel che sono senza dover cambiare il loro modo di essere: così vivono un conflitto, soprattutto interiore, fra i propri principi e quelli della società scolastica, oscillando fra essi senza mai riuscire a trovarsi a proprio agio.
Allora mi sono chiesto a che gruppo fossi appartenuto io ai tempi del liceo.
Fermo restando che la scuola italiana è basata su un modello ottocentesco di insegnamento che riduce molto l'interazione fra gli studenti e quindi limita le varietà delle specifiche dinamiche sociali: non ci sono squadre sportive scolastiche oppure le altre attività sociali che sembrano invece comuni nelle scuole americane (circoli vari, giornalini studenteschi, disparati laboratori, lo psicologo scolastico, associazioni studentesche)...
La formazione dello studente in Italia è lasciata molto di più alla famiglia con tutto ciò che questo comporta: chi può permetterselo farà attività extra scolastiche ma gli altri no.
Vabbè, tornando a me, sono giunto alla conclusione che io appartenessi al gruppo degli imbranati: solo che ero talmente imbranato che neppure me ne rendevo conto!
Di sicuro rispetto all'imbranato classico dello stereotipo americano, che vorrebbe essere parte del gruppo senza riuscirci, io non vivevo nessun conflitto interiore: il mio interesse alla vita sociale scolastica era pari a zero e, per questo, non mi sentivo assolutamente un paria o roba del genere. Anzi, avrei anche potuto essere emarginato (e magari lo sono stato!), ma non me ne sarei sicuramente accorto né preoccupato!
Questa serie mi ha poi ricordato l'origine di una delle mie più importanti e formative intuizioni: probabilmente l'avrei anche potuta inserire nella serie “KGB le origini”...
Credo che fosse l'estate fra la quarta e la quinta liceo: era venuta a trovarci la madre di un mio compagno di classe di cui mia mamma era divenuta amica.
Dopo cena, in terrazzo, ci raccontò dei suoi studi (*1) e parlò dei problemi psicologici di una donna: ora non ricordo i dettagli (*2) ma fu qualcosa che sul momento mi sembrò di una banalità irrilevante.
Mio padre la pensava allo stesso modo e subito ironizzò sulle preoccupazioni stupide della gente: l'amica di mia mamma si accigliò e gli spiegò seriamente che la sua battuta era fuori luogo: per quella donna il problema non era banale ma molto grave e questo le procurava tutta una serie di scompensi psicologici reali.
La morale, così come l'intesi io, non è che sia tanto importante la reale gravità di un problema ma come questo venga percepito.
Adesso mi pare una banalità perché questa sorta di relativismo psicologico fa ormai parte di me ma, all'epoca, fu una sorta di illuminazione: una chiave per comprendere comportamenti altrui altrimenti inspiegabili...
Ecco, nella serie “13 reasons why”, soprattutto nelle prime puntate, le disavventure della studentessa mi erano sembrate decisamente banali, cose che a me avrebbero provocato il disagio, forse, di una giornata ma non di più. Un po' perché si trattava di imbarazzi tipicamente femminili (in una classifica diffusa fra gli studenti la protagonista è giudicata quella con il sedere più bello e uno studente, al quale aveva dato solo un bacio, si vanta di aver fatto sesso con lei) e un po' perché, comunque, l'opinione altrui su di me mi è sempre stata totalmente indifferente.
Per questo motivo, dopo le prime puntate, mi chiedevo come gli sceneggiatori potessero giustificare il suicidio (*3) della protagonista su basi così fragili: è stato allora che mi sono ricordato della lezione imparata una trentina di anni fa, una sera d'estate...
Conclusione: scusate per la forma contorta di questo pezzo: inizialmente volevo scrivere solo un corto ma poi ho deciso di aggiungerci altri dettagli e riflessioni che mi parevano interessanti...
Nota (*1): aveva iniziato a frequentare l'università e si laureò qualche anno dopo. Una donna molto in gamba e un po' particolare che, proprio per questo, si trovava bene con mia madre. Ad esempio so che decise di convertirsi all'ebraismo e, nonostante il rabbino avesse cercato in ogni modo dal dissuaderla, lo fece!
Nota (*2): qualcosa tipo il preoccuparsi per la presunta invidia delle amiche per un paio di scarpe...
Nota (*3): che la protagonista si suicida non è uno sciupatrama: viene immediatamente chiarito nei primi cinque minuti della prima puntata!
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