venerdì 22 febbraio 2013
Paramorosonoide (8/10)
8. Riunione
L'entrata sul retro è in realtà un'uscita d'emergenza. Chiusa però. Barbara la studia: cerco di sbirciare da dietro le sue spalle quello che sta facendo ma non ci riesco. Dà uno spintone e la porta si socchiude. Non sapevo che questo tipo di porte si aprisse anche dall'esterno. «Era rotta...» mi spiega, poi mi prende per mano e mi trascina dentro.
Le luci al neon le odio: quel loro sfarfallio mi fa impazzire. Tutto mi pare prendere una sfumatura verdognola, cadaverica. L'anziano insonne che ci squadra a bocca aperta sembra uno zombie. Con una flebo al braccio. Non sembra pericoloso anche perché non ha zanne acuminate: deve aver dimenticato la dentiera sul comodino. «Chiama il vecchio» mi dice Barbara. Obbedisco sicuro che lei sappia quello che fa. Il vecchio si avvicina con la velocità di una lumaca di cent'anni. «Vieni, entriamo qua dentro: si sono accorti che la porta è stata aperta...». Siamo in uno sgabuzzino buio e stretto: Barbara è premuta contro di me mentre aspetta con la testa poggiata sulla porta. È scomodo ma c'è grande intimità. Ne approfitto per abbracciarla: appoggio il mento sui suoi capelli e ne assaporo l'odore. Vorrei baciarla ma so che non vuole che mi muova: dopo pochi istanti la questione è superata. La voce di un'infermiera «Signor Martini, cosa combina ancora alzato a quest'ora? Perché è andato ad aprire l'uscita d'emergenza? Non vorrà mica scappare? Lo sa che la sua figliola se la prenderebbe con me, vero? C'è pure la polizia fuori stanotte: se esce l'arrestano!» e così via. La voce si smorza pian piano: l'infermiera logorroica sta riaccompagnando il vecchio alla sua camera. Non l'ha morsa, ergo non era uno zombie.
Siamo di nuovo nel corridoio, a quest'ora tutti i pazienti sono a letto. I pochi infermieri di turno sono seduti nella loro stanza a controllare i monitor e a leggiucchiare delle riviste. Me l'ha spiegato Barbara. Non dobbiamo farci vedere e lei sa come fare. «Conosci bene anche questo ospedale?» le chiedo scherzoso. «Sfortunatamente, sì...» mi risponde con un sorriso triste. Mi sento in colpa: non so mai quando scherzare... Lei mi accarezza la guancia «Non ti preoccupare, va tutto bene: fra poco potremo stare insieme...» e questa volta mi sorride felice. Il piano è cambiato: niente pronto soccorso. Barbara mi porterà in un rifugio sicuro dove potremo stare insieme.
Arriviamo a un ascensore di servizio e Barbara mi dice che dobbiamo prenderlo per raggiungere il terzo piano. Esito: penso che potrebbe esserci il rischio di venire scoperti quando la porta dell'ascensore si aprirà. «Tranquillo, su non c'è nessuno...» mi dice. Premo il pulsante senza chiedermi come faccia a sapere tutto: lei mi guarda e il suo sorriso pare dirmi di non temere.
«Questo è l'ultimo passaggio pericoloso: devi fare esattamente come ti dico per non essere visto, pensi di farcela?» Barbara mi parla come se fossi un bambino e questo mi irrita. «E tu allora?» rispondo seccato. «Questa è un'ala femminile: anche se mi vedono non desterò sospetti...». Le luci del neon mi impediscono di concentrarmi facendo sfarfallare i miei pensieri: ma c'è qualcosa che non mi quadra nel suo ragionamento. Sto per riaprire la bocca per dar voce ai miei dubbi ma lei me la tappa con un bacio. «D'accordo» rispondo: scuse accettate.
Sono carponi sul pavimento mentre Barbara cammina dietro di me guidandomi: «Fermo. Aspetta, aspetta... Avanza, più rapido! … fermo, non ti muovere!». Sento dei passi avvicinarsi poi, a qualche metro di distanza il rumore di un vaso che va in frantumi e l'urlo impaurito di una donna. «O mamma che spavento! La brocca del caffè si è rotta da sola!» dice una voce sconosciuta prima di mettersi a ridacchiare nervosamente. Altre due risate si uniscono alla prima. «Avanti ora!» mi incita Barbara. Svolto un angolo ed è fatta. Siamo in un corridoio deserto e ho la strana sensazione che qui il sonno dei pazienti sia ancora più profondo. «Non ci pensare...» mi dice Barbara «...ormai siamo arrivati!». Mi fa entrare in una stanza e mi dice di non accendere la luce «Questa camera è vuota: finalmente potremo stare insieme, potremo unirci...» La maniera con cui pronuncia “unirci”, quello che lascia in sospeso, mi fa rabbrividire d'eccitazione.
Chiudo la porta e Barbara mi passa avanti. Sono ben contento di rimanere al buio completo perché la maledetta luce del neon mi ha riempito di lacrime gli occhi. «Vieni!» mi chiama. Avanzo incespicando verso la voce che mi chiama. Sbatto contro un letto. Lo tasto con le mani e sento sotto la coperta leggera il corpo di Barbara. Lei ridacchia felice poi aggiunge con voce roca «Ora spogliati, veloce!». Obbedisco più rapidamente che posso: fortunatamente non indosso una camicia altrimenti me la sarei strappata di dosso. Tiro via la coperta e salgo sul letto: è un po' stretto. Pazienza. Tocco Barbara sotto di me. Indossa una strana vestaglia di stoffa ruvida: «Toglimela tu...» dice lei: non li vedo ma sento i suoi occhi che mi guardano velati dal desiderio. Le mie mani scorrono sul suo corpo nudo e non sanno decidersi su quale angolo della sua pelle liscia accarezzare. Lei sospira ma non si muove. «Adesso prendimi!» quasi mi scongiura. Scendo su di lei, premo leggermente e subito lei cede e si apre a me. Cado in lei, sono dentro di lei. Improvvisamente tutto è grigio scuro e fa fred-
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