sabato 16 febbraio 2013
Paramorosonoide (6/10)
6. Trasloco fai da te? Ahi! Ahi! Ahi!
Siamo in una zona residenziale, vicini all'ospedale. È tardi: guardo l'orologio ma le lancette girano ognuna per conto suo, avanti e indietro. Però mi sento meglio: l'aria fresca della notte mi schiarisce le idee. Abbastanza. Camminiamo lungo il marciapiede. Alla nostra destra ci sono dei graziosi giardinetti e delle villette. Ormai quasi tutte le luci sono spente. Gli abitanti dormono già o stanno per farlo. Le finestre sembrano occhi, le porte delle bocche e, i vialetti che arrivano fino al marciapiede, delle lunghe lingue. So che è solo la mia immaginazione ma per prudenza ci passo alla larga. Ogni tanto ho dei flash: l'incontro con i cani e l'uomo che crolla con l'accetta nel petto. Ma sono sempre più rari e sbiaditi. Sono come ricordi già lontani, memorie di un incubo che va svanendo. Barbara mi ha rassicurato: non troveranno mai il cadavere e, quando lo troveranno, sarà stato completamente spolpato da quel che rimane della banda dei cani. E poi mi ha fatto gettare lontano l'accetta: più sicuro di così... «Sei in una botte di ferro» mi ha detto. E io le credo perché lei non mi mentirebbe mai. Mentre si cammina Barbara mi racconta tutto di lei e io starei sempre ad ascoltarla. Mi dice che vorrebbe un altro figlio e io esulto che lo faremo insieme. Mi parla delle sue paure e io le assicuro che con me non deve temere niente. Mi parla dei suoi sogni e io le prometto che li trasformerò in realtà. Mi parla delle sue gioie e dei suoi dolori e io rido e piango con lei. Mi accenna a un suo segreto e io le giuro che lo manterrò. Mi guarda seria e aggiunge che non sono ancora pronto: una nuvola scura offusca il mio volto, lei se ne accorge e mi consola illuminandomi con un sorriso carico di promesse...
Davanti a noi una villetta ha tutte le luci accese: nonostante sia quasi notte fonda, un uomo sta facendo la spola fra un furgone e la porta di casa lasciata aperta. Vari oggetti e scatoloni sono ammucchiati lungo il vialetto. Strana ora per traslocare. L'uomo rientra in casa: si sentono le grida infuriate di una donna e una porta che sbatte violentemente. Barbara mi sorride e inizia a correre dinanzi a me: so che vuole che l'insegua e così le do qualche metro di vantaggio. Mi sono già dimenticato dello strano uomo e penso solo a lei. Improvvisamente un ruggito assordante mi paralizza. Dopo un attimo, un drago dalle scaglie multicolore piomba addosso a Barbara. Rimango immobilizzato dal terrore: non per me ma per lei. Sbatto le palpebre e il drago diventa un bimbetto sugli otto anni in sella a una biciclettina troppo piccola per lui. Mi accorgo che Barbara non si è fatta niente e tiro un sospiro di sollievo. «Brutta scema! Cosa ci fa una troia in giro da queste parti! Sei una cretina idiota! Porta il tuo culone via da qui! Sei una puzzona grassa!» e un fiume di altre oscenità escono dalla bocca del bambino. Barbara mi guarda seccata: devo intervenire. Afferro il bimbo per il cappuccio del cappotto e lo sollevo da terra mentre questo continua a insultarla come se niente fosse. «Non è colpa del bambino...» mi dice lei comprensiva «...ma devi dire al padre di insegnare l'educazione a suo figlio». Ha ragione: mi avvio per il vialetto trascinandomi dietro il piccolo diavoletto. Ora ha smesso di insultare Barbara e invece ha preso a scalciarmi e a cercare di mordermi. Sto davvero perdendo la pazienza. «Di' al padre che suo figlio è una brutta peste, un gatto selvaggio che andrebbe tenuto chiuso in gabbia...» mi incita Barbara alle mie spalle.
Sono dentro la casa sconosciuta, in un ampio ingresso-soggiorno: l'uomo, un signore grassoccio sulla quarantina, sembra non essersi accorto di niente. È girato di spalle, accovacciato a terra, e sta raccogliendo dei libri per inserirli in uno scatolone al suo fianco. Mi stupisce che non abbia notato il baccano che sta facendo il bambino: mi accorgo che è assorto a guardare un album di foto. Proprio in quel momento la piccola peste sguscia fuori dal suo cappotto, mi morde la mano e schizza via veloce in un'altra stanza. Perdo le staffe «Suo figlio è un bastardo piccolo criminale! Se lo prendo gli tiro io uno sc...». La reazione dell'uomo è sorprendentemente rapida: con un urlo rauco, il volto paonazzo, si alza girandosi e mi si avventa contro spingendomi contro la parete. Mi ha colto di sorpresa e urto dolorosamente la nuca. Però sono molto più forte: appena recupero l'equilibrio mi limito ad afferrarlo e a sbatterlo violentemente contro la libreria. Inizia a sanguinare, poi diventa inerte: non so perché ma la mia rabbia aumenta invece di diminuire. È a terra: inizio a tempestarlo di calci talmente forti che lo sollevano in aria. La sua faccia è ridotta a una poltiglia irriconoscibile di sangue: le braccia, piegate ad angoli innaturali, chiaramente rotte. Eppure, per quanto mi accanisca contro quel corpo ormai inanimato, la mia ira continua a crescere. Mi accorgo che mentre lo sbatto contro la scrivania sto emettendo un grido inumano, profondo, lunghissimo, un lamento più di dolore che di rabbia: un urlo che non riconosco come mio; un urlo che non mi appartiene... Improvvisamente qualcosa mi colpisce alle spalle: mi giro. È la moglie che mi guarda con occhi allucinati e una padella in mano. Non ho niente contro di lei e apprezzo il suo coraggio: l'afferro per i cappelli dietro la nuca e le faccio sbattere violentemente la testa contro la parete. La lascio andare e lei scivola a terra esanime. Una macchia di sangue e frammenti di denti rimane a indicare il punto dove la sua faccia ha baciato il muro. D'un tratto sono calmissimo. Barbara saltella per l'eccitazione e batte le mani felice guardandomi adorante; sul divano c'è l'odioso bambino che ha provocato tutto questo casino che però se la ride come un matto. Poi Barbara gli si avvicina, lo prende in braccio e gli dà un bacio in fronte. Sono confuso e stanco. Ma soprattutto confuso. Mi pare che nulla abbia più senso. «Ora che facciamo?» chiedo a Barbara.
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