Stanotte ho dormito malissimo (ho avuto prima freddo e poi caldo) dalle 3:00 alle 4:00 e dalle 6:00 alle 8:00, però ieri sera ho provato a leggere ed è andata piuttosto bene.
Ho iniziato un nuovo libro (scritto dai bloggatori del canale DarkHorse Podcast Clips) che sembra molto promettente: una visione della società moderna dal punto di vista evolutivo (gli autori sono biologi evoluzionisti) molto ben documentato.
Ma soprattutto sono andato avanti con “L’età degli imperi” di Hobsbawm. Siccome ho letto solo parte di un capitolo mi limiterò alle annotazioni raccolte. Il capitolo in questione è sulla formazione e caratteristiche degli imperi della fine del XIX secolo.
Un primo passaggio che mi ha colpito è in verità solo un accenno: in pratica che i paese colonizzati, e sfruttati per le loro risorse, trassero comunque un complessivo beneficio da questo sviluppo economico. Attualmente, in una fase di revisionismo storico, si tende a colpevolizzare il colonialismo come un fenomeno esclusivamente negativo per i paesi colonizzati. Invece Hobsbawm, che scrive questo libro nel 1987, dà per scontato che non fosse così: lo sviluppo economico di questi paesi, magari basato intorno a un unico prodotto o risorsa, comunque anomalo, portò ricchezza anche a una parte della popolazione locale.
Ovviamente mi fido della valutazione di Hobsbawm e ho declassato la questione del male assoluto del colonialismo a “wokismo” storico.
Una caratteristica molto interessante del colonialismo fu che portò alla crisi dei governi locali. Scrive Hobsbawm: «[…] la disgregazione dei governi locali indigeni, che a volte determinò l’instaurazione del dominio europeo su aree che precedentemente gli europei non si erano dati la pena di amministrare, era dovuta a sua volta all’indebolimento delle strutture locali prodotto dalla penetrazione economica.» (*1)
La frase di per sé è un po’ vaga e nel prosieguo non viene approfondita. La cosa interessante è che alla luce della mia teoria è immediatamente comprensibile: l’intervento economico occidentale, essenzialmente limitato a una specifica produzione, provocò inevitabilmente la creazione di intermediari locali che, sebbene ricevessero le briciole, si arricchirono molto rispetto ai propri connazionali. In altre parole si crearono dei parapoteri locali, prima totalmente inesistenti e con forti relazioni e collaborazioni con gli europei, che non avevano rappresentanza nel governo locale: questi furono la forza sociale che evidentemente portò alla disgregazione del relativo parapotere politico.
Ovviamente questo Hobsbawm non lo scrive: è una mia deduzione del fenomeno alla luce della mia teoria.
Accenno poi a “l’imperialismo sociale” in cui l’imperialismo è usato come motore sociale per contrastare e placare il malcontento sociale tramite miglioramento economico, riforme sociali o altro.
Meccanismo interessante: vi chiedo se vi siano paralleli con il mondo attuale. A me pare che la crisi in Ucraina sia usata anche per distrarre la popolazione e, magari, togliergli diritti e/o libertà. Cioè non per migliorare le condizioni di vita della popolazione occidentale ma, semmai, per peggiorarla.
Insomma vi sono paralleli ma anche sostanziali differenze…
Conclusione: probabilmente avrei dovuto fare un’esame più ampio del capitolo ma, comunque, ne ho più volte scritto nel “diario” che sto pubblicando scannerizzandone le varie pagine...
Nota (*1): “L’età degli imperi” di Hobsbawm, (E.) Laterza, 2005, tradotto da Franco Salvatorelli.
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