Ho mangiato troppo. Per Natale intendo. Dopo tre settimane di dieta ho deciso di abbuffarmi: l'idea è quella di verificare la teoria secondo la quale se si mangia molto, tutto insieme, non si ingrassa perché l'organismo, più di tanto, non riesce ad assorbire.
Comunque adesso ho la pancia gonfia, una sonnolenza che sconfina nel mal di testa e un pessimo umore.
Vorrei protestare contro il Natale ma temo di cadere nello stereotipo della persona sola che vive le feste nella melanconia.
Però c'è del vero: oramai il Natale è un grande affare per le aziende che concentrano in questo periodo dell'anno le vendite. Le luci e gli addobbi hanno solo lo scopo di attirare i possibili acquirenti: non c'è sincerità dietro il sorriso di babbo Natale...
Se però non si partecipa al vortice degli acquisti allora cosa rimane?
Il significato religioso?
D'accordo, ma se non si è religiosi?
Resta la scusa per farsi un regalo, oppure per salutare i parenti o, come ho fatto io, per una mangiata?
Sì, però è un po' pochino, mi sembra, per tutto l'entusiasmo con cui la società vuol farci vivere questo periodo...
I bambini invece amano il Natale: cioè, non il Natale ma i regali.
I bambini hanno cioè dei desideri, delle speranze, e ancora non sanno che sono illusioni: pensano che il gioco atteso con ansia per giorni e scartato con frenesia in un attimo, li renderà felici per “sempre” (hanno uno strano senso del tempo...) mentre magari il divertimento durerà solo per qualche ora. A quel punto inizieranno a desiderare un altro gioco, magari visto a un amico oppure alla tivvù. È una lezione dura da imparare: forse perché va contro la natura umana. Oppure è la società che fin dall'infanzia ci inculca il principio “compra e sarai felice”. Sinceramente non ne sono sicuro.
Poi a una certa età, quasi improvvisamente, i vecchi balocchi non dicono più niente. Ma ancora il ragazzino non ha capito come va il mondo e, semplicemente, sposta i suoi desideri su qualcosa di diverso: magari il motorino, uno strumento musicale, un abito firmato...
La speranza della felicità è sempre viva, solo che ci si illude di raggiungerla attraverso oggetti meno banali dei vecchi balocchi: si è vissuto abbastanza per averi desideri più complessi del semplice “giocare e divertirsi” e i metodi per soddisfarli, a volte, diventano molto più indiretti.
Ma l'illusione di fondo, quella di raggiungere la felicità tramite un qualcosa, è ancora intatta.
A volte ci si può nascondere dietro a un “questo oggetto mi serve”. Ma anche la presunta utilità spesso è un inganno: ma questo non tutti arrivano a capirlo. Si maschera col dire “mi serve” qualcosa che, in ultima analisi, ci illude di poter renderci felici.
Il ragazzino diventa uomo e insegue altre illusioni: l'amore, la famiglia, il lavoro e/o il successo...
E i desideri, i regali, diventano funzionali a questi obiettivi. E chi dice “mi sto realizzando” viene stimato, magari anche invidiato, e invece non sta realizzando niente: cerca la base dell'arcobaleno ma non la raggiungerà mai...
Per i vichinghi l'arcobaleno, chiamato Bifröst, era un ponte infuocato sul quale vigilava costantemente il dio Heimdallr per proteggerlo dai giganti: esso collegava la terra al luogo mistico dove gli dèi tengono consiglio, le norne decidono il fato degli uomini e dove si erge il sacro Yggdrasill, l'albero cosmico. L'arcobaleno è quindi la manifestazione fisica di una soglia per l'aldilà.
La vanità dello sforzo con cui gli uomini che si affannano a raggiungere obiettivi illusori appare quindi evidente: a che pro impegnarsi così strenuamente per raggiungere una meta irraggiungibile quando basta chiudere gli occhi per oltrepassarla?
Io invece non desidero niente ma non per questo sono più felice. Annoiato sì, felice no.
Decisamente necessito di un digestivo...
L'esempio di Benjamin Franklin
3 ore fa
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