Sono cresciuta in una famiglia molto maschile, prima femmina dopo una serie di figli unici – il babbo, il nonno, il bisnonno… - zii maschi, un fratello più grande… e uno più piccolo, il cugino KGB (figlio, appunto, della zia unica, Grazia).
Certo, avevo una mamma, ma era di una razza speciale, quella delle professoresse-di-matematica, che hanno mille pregi – ma, bisogna ammettere, non quello della femminilità; la mia – per dare un’idea – costretta da sua madre a giocare con le bambole, le portò al torrente e le annegò.
Crescere in una famiglia di uomini pare fortifichi la tempra; io però sono e sarò in eterno molto invidiosa delle amiche piene di sorelle e cugine, con le quali si telefonano e si scrivono e confabulano, e si scambiano vestiti e gioielli e consigli e risate. Questa complicità a me non è stata data, ma il mio universo femminile sarebbe stato ancora più desolato, se a un certo punto non fosse comparsa la zia Grazia.
Innanzitutto, la zia era bella come Pochaontas: con gli zigomi alti, gli occhi scuri e dei bellissimi capelli, neri come l’inchiostro e lunghissimi. Ma – più importante ed educativo, per me – la zia amava e voleva sentirsi bella. Non sono in grado di dire se fosse una persona “alla moda” – perché “la moda” era assolutamente tenuta fuori dal mio universo di bambina e la sola idea di preoccuparsi per come ci si vestiva o mettersi un rigo di rimmel era considerata, in famiglia, come una dimostrazione di scarso QI. Però, ripescando dai miei ricordi le sue gonne da zingara e i suoi scialli, non credo che lo fosse: era troppo originale nei suoi gusti per farsi limitare dalla moda.
La zia, soprattutto per le feste comandate, arrivava a casa nostra con zio e cugino, e passavamo qualche giorno insieme; e con lei innanzitutto arrivava la sua voce flautata e il profumo – che si diffondeva, speziato e insolito, per la casa; e poi i suoi vestiti sempre originali, le sue scarpe, i suoi splendidi gioielli e – nel bagno – misteriosissima e irresistibile, la sua borsa dei trucchi; ma la cosa più stupefacente era che per la zia voler essere bella era una cosa importante e fondamentale, e grazie a lei i miei desideri segretissimi e inespressi di femminilità non sembravano più peccati capitali (o peggio: dimostrazioni di un cervellino poco sviluppato). Ricordo anche la consolazione segreta (dei pavidi) che provavo osservando il suo scarsissimo interesse, combinato alla preoccupazione di ingrassare, per tutto il fermento culinario che agitava i miei genitori.
Una volta mi regalò un paio di scarpe di raso rosa, con la punta, da ballerina (io ovviamente ero stata indirizzata verso l’atletica); credo che sia stato uno dei regali più preziosi che ho mai ricevuto, perché riconosceva in me qualcosa, un desiderio, che nessun altro aveva visto, e lei (forse) sì.
Non ci siamo mai frequentate molto, e le sue apparizioni rimangono mitiche e sporadiche; in montagna, bellissima con i pantaloni infilati negli scarponcelli (come usava allora) e un girocollo rosa; alle cene di Natale con la minigonna e gli stivali bianchi; una visita quando abitavamo in Olanda, e poi quando mandò per regalo ai suoi bis-nipoti… due martelli e un sacco pieno di chiodi!! (la sua originalità, credo, si stava finalmente allargando dall’abbigliamento a tutto il suo essere…); e persino nei suoi ultimi mesi la ricordo, all’ospedale, seduta sul lettino ma bella, sorprendentemente distesa, e vestita e truccata con la sua solita perfetta unicità. E allora – che avevo ormai lasciato casa da tempo e tirato fuori dal bozzolo la mia più profonda, frivolissima, natura – mi fece complimenti sinceri per come ero vestita. E in quel modo, in un certo senso, un testimone fu passato.
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