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giovedì 10 luglio 2014

I dolori...

Quello che mi piace del mio e-reader è che non ho bisogno di segnalibri per ricordarmi dove sono arrivato a leggere!
Continua a mancarmi però la sensazione della carta fra le dita: ogni volta che “giro” pagina quella precedente mi pare svanisca nel nulla. Mi dà una sensazione di precarietà che mi causa ansia.

Comunque, nonostante questi piccoli disagi, recentemente ho letto i Dolori del giovane Werther di un tale Johann Wolfgang von Goethe (Ed. LibroLibero).
Era tanto che volevo leggerlo e avendolo trovato scaricabile gratuitamente mi sono finalmente deciso a farlo.
Mi aspettavo chissà quali grandi rivelazioni sull'amore o sulla vita ma, in realtà, sono rimasto piuttosto deluso.
Ho la sensazione che la traduzione, almeno quella dell'e-book, gli abbia dato una bella mazzata: è evidente che ci sono dei passaggi che magari in tedesco sono molto lirici ma in italiano suonano prosaici, talvolta eccessivi e spesso un tantino noiosi.

Mi sono annotato dei passaggi più o meno in ordine cronologico che, per motivi diversi, mi hanno colpito.

«So bene che noi non siamo né possiamo essere tutti uguali» - si riferisce a ricchi (e colti), poveri (ignoranti) e nobili (ignoranti o colti che siano). Non mi sembra una concezione molto attuale...

Poi c'è un capitolo (una lettera: è un romanzo epistolare) in cui si svolge una festa con delle danze: arriva un temporale e si scatena il terrore. E non esagero: ecco la reazione di alcune delle donne che partecipavano al ballo - «La più saggia si mise in un angolo, volgendo la schiena alla finestra e turandosi le orecchie; un'altra si inginocchiò davanti a lei e le nascose la testa sul grembo; una terza venne fra loro due e abbracciò la sorellina in un torrente di lacrime.». Sono soprattutto le donne a impaurirsi e i ragazzi ne approfittano: «Alcune volevano tornare a casa; altre non sapevano più quello che facevano e non avevano sufficiente presenza di spirito per tenere a freno i giovani storditi che sembravano molto occupati a raccogliere dalle labbra delle belle tremanti le angosciose preghiere che esse levavano al cielo.»
L'unica spiegazione plausibile che mi viene in mente è che i parafulmini (prima dimostrazione a Parigi nel 1752) non fossero ancora molto diffusi ma, anche in questo caso, dubito che la probabilità che una casa venisse colpita da un fulmine fosse più alta che adesso...

Finalmente mi ha poi colpito positivamente per modernità (rispetto all'epoca: il romanzo fu pubblicato nel 1774) come il protagonista consideri i bambini: non come “sudditi” ma come “modelli”...
È interessante, se non buffo, considerare come il ruolo dei figli sia cambiato nel corso del tempo: inizialmente erano considerati proprietà del padre (penso alle famiglie della Bibbia o ancora nel medioevo) mentre adesso il figlio, perché spesso è unico, è diventato il padroncino della famiglia al servizio del quale stanno genitori e nonni.

Un concetto che ho apprezzato: «...un uomo che, per volere altrui, ma senza un'intima passione, una personale necessità, si affanna dietro al denaro, l'onore o altro, sarà sempre un pazzo.»
Concordo: nel mondo attuale ancora più di prima si è smarrito il senso della vita.

Ed ecco un altro passaggio, oserei dire, un po' anacronistico: «Chi scaglierà la prima pietra contro il marito che nella sua giusta collera immola la sua donna infedele e l'indegno seduttore?» - chiede il protagonista. In Italia qualsiasi tribunale...

Una frase che sarebbe piaciuta al Leopardi: «Così immaginiamo l'uomo felice. Ed esso è una creatura della nostra fantasia.», e una che è piaciuta a me: «Rido del mio cuore... ma finisco col far sempre la sua volontà.»

Siamo alla nascita del romanticismo e le poesie di Ossian, il falso storico inventato da James Mac Pherson, all'epoca sono considerate originali.
Mi sfuggono i dettagli ma sono sicuro che sia significativo che il protagonista dichiari che “Ossian ha preso il posto di Omero” nel suo cuore. Sul finale del romanzo, a rimarcare l'importanza di Ossian, ci sono svariate pagine di sue liriche incentrate su amori sventurati e dal funereo epilogo finale.
Aggiungo anche che la lettura di queste storie mi ha ricordato moltissimo Tolkien! Non mi riferisco al Signore degli anelli ma al Silmarillion e in particolare alla storia di Túrin Turambar.

Accenno alla credenza calvinista, ripresa dal luteranesimo, della salvezza ottenuta unicamente tramite la grazia (v. il corto Cari Romani...); il protagonista scrive «Lo stesso figlio di Dio non dice forse che attorno a lui staranno coloro che il Padre gli ha dato?»

Forse uno dei passaggi che più mi ha toccato è stato l'incontro del protagonista con un folle; in seguito Werther, parlando con un suo famigliare, chiede quale fosse il “tempo felice” di cui vaneggiava il pazzo: «Qual è dunque il tempo che egli rammenta e nel quale dice di esser stato così felice, così contento? - Poveretto, disse con un sorriso di pietà: vuol parlare del tempo in cui era fuori di sé: ricorda sempre di quando era in manicomio e non aveva coscienza di se stesso.»
Sicuramente il Leopardi sarebbe stato d'accordo!

«Che serve che io dica e ripeta: è bravo, è buono? Il mio cuore è lacerato: non posso essere giusto.» Piace alla mia natura romantica: Werther si riferisce ad Alberto, il marito di Carlotta, del quale aveva più volte scritto grandi elogi. È un concetto che richiama il mio “peggior” racconto (v. Peggior racconto) e infatti al tempo mi ispirai a diversi poeti romantici fra cui proprio Goethe!

Molto interessante l'accenno alla locale tradizione natalizia: adesso imperversa il globale abete di Natale e il Babbo Natale obeso dal pigiama rosso ma, evidentemente, in passato ogni paese doveva avere le proprie tradizioni. In particolare l'autore scrive: «Egli parlò del piacere che avrebbero goduto i bambini, e del momento in cui all'inaspettata apertura di una porta sarebbe apparso l'alloro illuminato, ornato di dolci e di mele, facendo provare ai fanciulli gioie paradisiache.»
Al giorno d'oggi, se per Natale regali a un bambino una mela, è probabile che te la tiri dietro!

Ovviamente, sapendo che il protagonista si sarebbe suicidato, ero curioso di vedere come giustificava tale azione. Poco prima di metà libro c'è il primo accenno: il protagonista esalta il suicidio considerandolo una prova di forza, uno sforzo supremo.
Sul finale invece il tono si fa più drammatico: la morte è vista come un ritorno a Dio e il suicidio una semplice scorciatoia per il cui uso Dio stesso non dovrebbe adirarsi troppo: «Un uomo, un padre, potrebbe forse adirarsi quando il figlio ritornando all'improvviso gli si gettasse al collo esclamando: sono tornato padre mio! Non ti irritare se abbrevio il pellegrinaggio che secondo il tuo volere avrei dovuto ancora proseguire.»

Notevole poi la conclusione del libro dove è descritto il corteo funebre che accompagna il feretro del protagonista: «Alcuni artigiani lo trasportarono, e nessun sacerdote lo accompagnò.»
È evidente l'accusa alla Chiesa non solo assente al funerale ma anche durante il travaglio spirituale del protagonista: talvolta si accenna a Dio ma è un confronto interiore che esclude pastori e/o sacerdoti.

Conclusione: quando ero già a metà lettura mi è capitato di accennarne a un'amica che al riguardo mi scrisse «...Leggere il Werther va sempre bene per istruzione e per capire quanto i "tedeschi" sono diversi dalla quel che è opinione superficiale, corrente in Italia...».
Quindi, applicando le mie annotazioni ai tedeschi, posso concludere: per i tedeschi la divisione in classi sociali nette e distinte è invalicabile; hanno paura dei temporali; grande rispetto per i bambini e le loro potenzialità; sono un po' maschilisti; preferiscono lo pseudo-Ossian a Omero; hanno un rapporto personale con la religione e, in particolare, invece che al libero arbitrio credono nel destino.

A parte gli scherzi, ritengo che questa opera perda moltissimo nella traduzione: alcune parti mi sono anche piaciute molto ma nel complesso sono rimasto deluso probabilmente perché mi aspettavo troppo...

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