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martedì 19 maggio 2020

Paese che vai...

Ieri mi sono per caso imbattuto in Rete in un articolo di una mia cugina: per la precisione quella che scrive bene…
Al di là dei contenuti che coscientemente scelgo impegnativi e difficili da trattare il mio stile è faticoso: la parola non mi viene facile, è uno sforzo continuo e spesso frustrante. Me ne rendo conto indirettamente quando rileggo ciò che ho scritto: ogni volta vi apporterei decine di correzioni senza comunque mai esserne totalmente soddisfatto. Poi, è chiaro, ormai sono dieci anni che porto avanti questo diario virtuale, un po’ sono anche migliorato!
Però diciamo che mediamente mi sento da 6½; in buona giornata arrivo a 7 ed, eccezionalmente, un paio di volte all’anno, scriverò pezzi da 7½…
Ecco, mia cugina per capirci, quando scrive male le vengono pezzi da 7... e non aggiungo altro!

Nell’articolo in questione (*1) l’autrice cerca di rispondere alla seguente domanda: “Perché ho scelto di vivere nel mio paese?”.
Alla fine la risposta che lei si dà è che vivere a Montelupo, il paese in questione, la fa sentire parte di una comunità, una specie di famiglia allargata in cui tutti si conoscono: probabilmente una fonte di energia e sicurezza psicologica. Ma questa è una mia illazione.

Io invece non ho particolari radici: soprattutto da bambino la mia famiglia si è trasferita più volte sia nei dintorni di Firenze che all’interno della città stessa. Non ho ricordi di luoghi che mi siano particolarmente cari e ai quali posso legare la mia crescita: si tratta di sfondi sempre diversi…
Proprio per questo mi sono più volte chiesto se mi sarebbe piaciuto vivere in un’altra realtà, di paese appunto.

Non so… da una parte l’idea di rimanere costantemente in contatto con persone che conosco da una vita un po’ mi intriga ma, nel complesso, temo che per me sarebbe stato un peso: io che valuto così tanto la mia libertà, per quanto di natura e spirito indipendente, mi sarei comunque sentito legato dall’immagine data di me stesso ai miei concittadini. Del resto, come ho (forse) già chiarito riguardo ciò che scrivo sulla mia persona su questo sito, non mi importa dell’opinione che si forma su di me chi non mi conosce né temo quelle di chi mi conosce bene: mi disturbano invece le opinioni superficiali e i collegamenti errati che chi mi conosce poco potrebbero fare leggendo i miei scritti. E questa conoscenza superficiale e diffusa sarebbe probabilmente la norma vivendo in un paese. Le persone avrebbero la presunzione di avermi “capito”, di avermi ben “inquadrato”, mentre invece non sarebbero andate oltre il “cappotto”, ovvero il mio strato più esterno. Sarei stato etichettato ed evitato.

Mia madre, anche lei originaria di un piccolo paese di provincia, ripeteva spesso quanto fosse felice di essersene andata e, ne sono convinto, di aver così evitato la pressione sociale alla quale era grata di non dover rispondere o rendere conto.

Alla fine suppongo che tutto dipenda da quanto si sia integrati in una comunità: se si è un membro apprezzato e stimato allora la società ti ripaga dandoti appunto apprezzamento e stima che, a loro volta, si traducono in un senso di sicurezza e protezione; vice versa però, se le tue scelte ti portano oltre il comune sentire, allora le stesse forze sociali del paese iniziano a muoversi contro di te, ti ostracizzano, “mormorano” o ridono alle tue spalle, indirettamente ti ostacolano nella tua libertà di esprimerti e comportati, cercano di coartarti.

L’articolo di mia cugina tutto sommato mi convince che questo sia davvero il caso: lei è una persona stimata e rispettata ma io, se vivessi in un paese, non sarei supportato da una rete di benevole conoscenze ma, piuttosto, sarei la mosca finita nella tela di un ragno. Certo non mi mangerebbe subito ma mi lascerebbe lì, chiuso in un bozzolo, allo stesso tempo vicino e lontano da tutto: in mezzo agli altri ma separato dagli altri.

Sono pessimista: credo che alla fine la società, dove ogni uomo valuta se stesso confrontandosi con i propri vicini, sia come un gioco a somma zero. I pro e i contro per la totalità della popolazione si annullano: ma se si è fortunati, ovvero ben integrati nella società, allora se ne riceve un beneficio mentre, in caso contrario, se ne viene danneggiati.
Del resto la società umana “funziona” così: essa è più efficace se la sua popolazione pensa in maniera uniforme e, di conseguenza, ha sviluppato i suoi mezzi, psicologici e non solo, per zittire le voci fuori dal coro, per portare tutti a allo stesso pensiero comune, ovviamente tendenzialmente vieto e conformista, a uniformarsi. E quando la società non ha la forza di cambiare la realtà di una persona con la sua pressione ecco che allora si accontenta dell’apparenza, dell’ipocrisia: magari si arriva a tollerare chi si conosce malvagio o disonesto se però riesce a mantenere una facciata di vuota e falsa moralità. Ma non divaghiamo nella palude dell’ipocrisia che aprirebbe tutto un altro capitolo!

Conclusione: se devo essere incompreso preferisco esserlo da parte di voi miei lettori, che non sapete chi sono, e non da parte di chi incontro e saluto ogni giorno!

Nota (*1): automaticamente ero entrato in modalità “preservare la riservatezza altrui” e non pensavo di citare direttamente il suo articolo ma poi mi sono reso conto che è pubblico e che quindi l’unica informazione che marginalmente lederebbe la sua riservatezza è solo il fatto che sia mia cugina! Ma dato che, leggendo questo ghiribizzo, non è chiaro chi io sia alla fine non aggiungo niente a quanto non sappiate già di lei stessa da ciò che ha scritto di sé. In definitiva mi sento quindi libero di condividere qui il collegamento al suo articolo: Ghost writers: Montelupo / Racconta. “Il mio paese” di Aglaia Viviani. su BibliotecaMontelupo.Wordpress.com

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