[E] Per la comprensione completa di questo pezzo è utile la lettura della mia Epitome (V. 1.2.0 "Cicuta").
Oggi ho portato la macchina a fare la revisione e ne ho approfittato per passare la mattinata nella vicina biblioteca.
Era da giorni che ci pensavo e così mi sono fatto cercare due libri: uno sulla storia della Cina e un altro sull’immigrazione. Chiaramente ne ho potuto leggere solo frammenti: l’introduzione in quello di storia e diversi capitoli scelti in quello di sociologia. Per motivi di spazio però oggi non scriverò del libro di storia cinese e mi concentrerò invece su quello di gran lunga più interessante: “Exodus: i tabù dell’immigrazione” di Paul Collier, Ed. Laterza, 2015, trad. Laura Cespa (*1)
Prima di tutto ero molto titubante quando ho iniziato a sfogliare questo saggio: la mia Epitome ha una forte componente di sociologia ma io in realtà non ho mai studiato niente al riguardo. Temevo quindi di scoprire che la mia opera fosse un accozzaglia di idee puerili, di (ri)scoperta della ruota e/o dell’acqua calda…
Fortunatamente invece non è così: al di là della terminologia le mie intuizioni sono tutte confermate e, anzi, mi rendo conto di essere riuscito a creare una visione del mondo più completa e consistente almeno rispetto a quanto traspare da questo saggio. Insomma una grande soddisfazione anche in questo senso! Molte note che mi sono (faticosamente) copiato nei miei appunti sono trascrizioni che evidenziano proprio questo aspetto, cioè la conferma che, anche da un punto di vista sociologico, la mia opera ha una sua validità….
In generale, come si intuisce dal titolo, l’autore si prefigge di essere il più obiettiva possibile nell’esaminare i diversi aspetti del fenomeno dell’immigrazione. A mio avviso l’autore ci riesce bene perché separa chiaramente i dati dalle sue riflessioni e conclusioni.
Per capirci l’autore è fortemente a favore dell’immigrazione ma non ne nega i difetti né cerca di nasconderli al lettore che, anzi, è lasciato libero di trarre le conclusioni che preferisce (*2).
Curiosamente l’autore auspica piena libertà di movimento di tutti in tutto il mondo: la stessa teoria me la propose un mio amico qualche anno fa. All’epoca la considerai con estrema sufficienza perché è una proposta totalmente irrealistica e impraticabile ma, evidentemente, ha delle basi, almeno etiche, plausibili (*3).
Il primo capitolo che sono corso a leggere risponde a un dubbio che esprimevo in [E] 19.3: ovvero se in Italia vi potesse essere una correlazione fra immigrazione (dall’Africa) ed emigrazione (dall’Italia).
La risposta (e anzi l’intero libro) è incentrata sulla situazione inglese ma le analogie con quella italiana sono ovvie.
Secondo l’autore gli elementi che determinano l’emigrazione sono molteplici ma fra questi spiccano: la differenza di reddito fra i diversi paesi e la facilità di spostamento. Proprio le asimmetrie globali in questi parametri causano l’effetto di emigrazione a catena.
L’autore semplifica il fenomeno proponendo una simulazione con solo tre paesi: A→ America, B→ (Gran) Bretagna e C→ Ciad.
A accetta, per ragioni storiche, immigrati solamente da B, allora la popolazione di C, in cerca di reddito più alto, emigra in B. In B le condizioni di vita peggiorano (si abbassa il reddito a causa dell’aumento di mano d’opera) e questo spinge la popolazione autoctona di B a emigrare in A.
Lo stesso vale per l’Italia sostituendo all’America gli stati più ricchi della EU.
“Ma come!”, urleranno indignati i buonisti nostrani, “l’immigrazione non abbassa i redditi anzi produce ricchezza!”. I miei forti dubbi su questa affermazione li avevo già espressi nell’Epitome, oltre che in vari pezzi qui sul ghiribizzo, e quindi non starò a ripeterli. Riporto invece un estratto dell’autore del saggio premettendo che il benessere economico è dato dal reddito più i servizi offerti dallo stato: «Per quanto riguarda il reddito, stando ai principi base dell’economia, l’immigrazione di manodopera dovrebbe provocare la diminuzione dei salari e l’aumento dei rendimenti da capitale. Di conseguenza, i lavoratori autoctoni ci rimetterebbero mentre i ricchi ci guadagnerebbero. Per quanto riguarda i servizi erogati dal governo, lo stock di capitale pubblico esistente – scuole, ospedali, strade – sarebbe condiviso da un numero maggiore di persone, per cui la fornitura procapite diminuirebbe.» (p. 105).
I condizionali sono dovuti al fatto che, almeno in UK, la situazione non è così semplice: innanzi tutto una componente significativa nell’immigrazione in UK è di alta qualità e produce quindi ricchezza; comunque (ora a memoria non mi è più chiaro come) anche la gestione efficace della manodopera comporta un aumento di ricchezza.
La conclusione dell’autore, valida per il caso inglese, è che l’immigrazione diminuisce il reddito della classi autoctone più povere ma lo aumenta per quelle medie e, soprattutto, ricche. Alla fine, almeno in UK, la risultante di queste tendenze è un aumento complessivo della ricchezza: a causa però della sua asimmetria lo stato dovrebbe cercare di redistribuirla per evitare che le classi più povere ne siano penalizzate (ovvero più tasse per i più ricchi per finanziare più servizi per i più poveri).
Il caso italiano è ovviamente più drammatico: non abbiamo un’immigrazione di alto livello (dopotutto perché, ad esempio, un IT indiano dovrebbe volersi trasferire in Italia per guadagnare 1000€ quando potrebbe ottenere il quadruplo nel nord Europa?) e la capacità di moltiplicare la ricchezza prodotta dagli immigrati, mi pare, sia molto scarsa…
Proprio pochi giorni fa ho letto una statistica sull’aumento di reddito in vari stati europei al netto dell’inflazione: solo in Germania c’era un piccolo aumento (*4), crollo in Italia. Ovviamente questo non dipende solo dall’immigrazione che però non allieva il problema ma, anzi, lo aggrava.
Passaggi che confermano le “mie” teorie nell’Epitome.
- «Keynes suggeriva giustamente di spiegare la complessità alla gente comune attraverso le narrazioni: teorie in miniatura alla portata di tutti. Le narrazioni si diffondono rapidamente, diventano di dominio pubblico, ma il rischio è che si discostino molto dalla realtà.» (p. 24).
Mi pare evidente il parallelo fra il mio protomito/distorsione e la “narrazione”, così come il pericolo dei protomiti/distorsioni errati (*5).
- «Le false narrazioni si dissolvono nel nulla ma impiegano molto tempo a scomparire.» (p. 25).
Nella mia Epitome abbiamo l’intero capitolo 3.2 che analizza le diverse possibilità: e occhio alle “narrazioni” fuorvianti!
- L’autore riporta un interessante studio sul comportamento di persone provenienti da diversi contesti socioculturali (epomiti diversi). A New York (sede ONU) i diplomatici sono esentati per legge dal pagamento delle multe: solamente i diplomatici che si sentivano moralmente vincolati a farlo le pagavano. Gli studiosi avevano così individuato una correlazione diretta fra la corruzione del paese di origine e la propensione a pagare le multe: minore la corruzione e più alta la frequenza di pagamento delle multe. La cosa interessante è che col tempo tutti i diplomatici tendevano a pagare sempre meno spesso le multe: «L’interpretazione più plausibile di questo risultato è che i diplomatici non abbiano assimilato le norme newyorchesi ma abbiano iniziato ad assimilare quelle della comunità dei diplomatici.» (p. 62)
Questo fenomeno è perfettamente spiegato in [E] 5.8 dalla legge della rappresentatività e dalle condizioni di rappresentatività imperfetta: all’inizio del loro mandato i diplomatici usano le norme morali/culturali del proprio paese di origine ma, col tempo (condizione 2), se ne distaccano e iniziano a condividere sempre più obiettivi propri (protomiti) del gruppo delegato.
Per me era puerile pensare altrimenti.
- «Qualunque individuo è dotato di diverse identità: lavoratori, membri di una famiglia, cittadini.» (p. 63).
Questo corrisponde ai ruoli e i gruppi della mia teoria, vedi [E] 3.
- «Il processo attraverso il quale i giovani adottano una loro identità non è del tutto chiaro. Fino a poco tempo fa, l’economia non riteneva neppure che fossero questi i termini della questione: le preferenze delle persone si davano semplicemente per scontate e le determinanti del comportamento erano gli stimoli ai quali essi erano esposti. Tuttavia, nel campo delle scienze sociali è stata fatta di recente una scoperta fondamentale: le persone imitano il comportamento altrui; il motivo è di origine neurologica.»
Che dire? Vedi [E] 1.3, il paragrafo “l’imitazione”…
- Poi si differenzia fra modelli e stereotipi (interessante) e si insiste sull’importanza degli stereotipi positivi: vedi quindi sempre in [E] 1.3 il paragrafo sulla “deindividuazione” e in particolare le note 34 e 35…
Poi ci sarebbe un’infinità di spunti interessanti, un intreccio di sociologia e psicologia in cui sguazzo volentieri: tante conferme e qualche idea buona (come ad esempio quella dei “supercattivi” che forse finirà nella mia Epitome)…
Conclusione: decisamente un libro da comprare o, almeno da leggere. Al momento però l’ho lasciato in biblioteca perché ho già troppo materiale per le mani e anche perché ho già ordinato un libro (*6) sull’immigrazione in libreria...
Nota (*1): spero di aver riportato correttamente i nomi dell’autore e della traduttrice correttamente: la mia calligrafia è piuttosto… “ambigua”…
Nota (*2): cosa che io avrei fatto comunque ma, in questa maniera, è più facile per tutti!
Nota (*3): a me pare che il grande pericolo insito in questa proposta sia lo sfruttamento globalizzato della forza lavoro ma oggi non voglio divagare…
Nota (*4): aumento molto inferiore al dovuto. Anche in Germania la ricchezza prodotta dalle grandi aziende non viene redistribuita con i “lavoratori”: questo frena la domanda di beni esteri e contribuisce allo squilibrio finanziario fra stati del centro Europa con quelli della periferia. Bagnai docet…
Nota (*5): il concetto di protomito è centrale nella mia Epitome e molto più approfondito e diversificato.
Nota (*6): scelto assolutamente a casaccio e solo perché l’autrice mi sembrava carina!
Tassi alcolemici
3 ore fa
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