Da tempo non scrivevo nuovi episodi di questa serie: degli aspetti principali della mia personalità ho già scritto e altre caratteristiche raramente mi sembrano interessanti o magari le giudico non adatte a questa serie perché non traggono la loro origine nella mia infanzia...
L'uscita dalla prima infanzia fu per me un momento molto difficile. Forse in maniera impropria, intendo con tale definizione una nuova comprensione di sé e degli altri. Nell'infanzia i “grandi” per me erano figure a cui si ubbidisce e da cui si impara; tutto quello che dicono è vero; sono benevoli e la loro saggezza risiede nella loro esperienza e istruzione. Ma ovviamente bisogna diffidare degli estranei...
In pratica questa mia peculiare definizione dei “grandi” includeva solo i parenti, la maestra, le suore che gestivano la scuola e un pugno di altre persone (il mio dottore, il mio dentista e tutte le persone alle quali i miei genitori concedevano esplicitamente o implicitamente la loro fiducia): tutti gli altri erano “estranei”.
Questa mia definizione ebbe il primo “scossone” in prima media, quando alla singola maestra si sostituirono vari insegnanti, ma sostanzialmente tenne: anche della terribile Birello (*1) potevo aver timore ma la rispettavo.
Il crollo di questo mio piccolo “mito” infantile avvenne propriamente in seconda media quando mi trasferii in una scuola pubblica. Fu allora che mi resi conto che i miei insegnanti erano decisamente più stupidi di me: certo, sapevano più informazioni nella loro campo di insegnamento, ma la loro comprensione del mondo aveva degli orizzonti alquanto limitati.
Non voglio ripetermi: di questo periodo ho già abbondantemente scritto in La mia carriera scolastica 1/3 e La mia carriera scolastica 2/3.
Sta di fatto che non vissi con serenità, o almeno indifferenza, questa mia nuova consapevolezza: al contrario la sentii come un tradimento degli insegnanti nei miei confronti. Com'era possibile che io venissi giudicato e affidato a tali persone? Questo provocò in me una strana sorta di ribellione in cui mi rifiutavo di collaborare con la scuola: stimo che mi impegnai nello studio per non più di un decimo, a dir tanto, delle mie capacità...
Riassumendo in quegli anni mi ritrovai in una situazione particolarmente problematica:
1. Difficoltà a scuole dovute alla mia incapacità di adattarmi, anzi di accettare, i miei insegnanti per quel che erano.
2. Inizio adolescenza con i suoi squilibri ormonali.
3. Rottura dei denti col loro devastante impatto psicologico: v. KGB le Origini: risa distratte...
4. Anche il rapporto fra i miei genitori, da sempre in crisi, entrò in una nuova fase di difficoltà con il trasferimento nella nuova casa (scelta dal babbo e odiata dalla mamma). E comunque, così diversi fra loro, erano purtuttavia diversi anche da me: in pratica c'era un'incapacità biologica a comprendermi se non superficialmente.
Ecco che, durante quei due ultimi anni delle medie, mi resi però conto di essere in grado di manipolare con estrema facilità i miei insegnanti. Probabilmente mi sottovalutavano e non stavano in guardia, ma ero in grado di prevedere esattamente le loro reazioni e di indirizzarle quasi a mio piacimento. In genere usavo questa capacità per crearmi delle giustificazioni per non aver fatto i compiti: il mio disprezzo era per me un motivo sufficiente per imbrogliarli. Ricordo che la mattina simulavo mentalmente il dialogo con loro e ne prevedevo i possibili sviluppi. Ricordo che ero molto laterale nel mio approccio: gettavo un sasso nell'acqua, lontano dal bersaglio, e studiavo come le onde da esso provocate si rifrangessero sulla riva per indovinarne il profilo. E tutto questo dal vivo e con facilità.
Il lettore potrà essere scettico su quanto fosse reale questa mia presunta capacità “manipolatrice”. Del resto non ho prove al riguardo. Ma non è questo l'importante: ciò che è veramente significativo, e che ha influito pesantemente per il resto della mia vita, avvenne dopo, all'inizio della prima liceo.
Fu una cosa improvvisa, letteralmente subitanea, una specie di folgorazione sulla via di Damasco: mi pare che fossi seduto in classe (ma forse immagino questo dettaglio) quando ebbi la consapevolezza assoluta che fosse sbagliato manipolare gli altri: usare qualsiasi mezzo, anche il più sottile, per indirizzarli nelle loro scelte era immorale. Al massimo potevo fornire loro tutti i dati in mio possesso su una situazione ma senza indicazioni su come interpretarli. A meno che non mi fosse espressamente richiesto di farlo.
E io mi attenni a questa regola che mi ero autoimposto con ferrea intransigenza: di questo i miei lettori possono fidarsi!
Ricordo la frustrazione a lavoro nelle relazione con il mio capo: (giustamente!) si fidava molto di me e del mio giudizio e sarebbe stato facilissimo manipolarlo per farmi affidare incarichi o progetti più interessanti ma invece, quando chiedeva la mia opinione (sena però chiedermi “cosa faresti tu al mio posto?”) io li fornivo solo le informazioni che mi chiedeva e spesso lo vedevo prendere delle decisioni che io sapevo già da subito essere errate...
Col senno di poi gli avrei reso un miglior servizio guidandolo nelle decisioni ma all'epoca non mi ponevo il problema ma ubbidivo con pertinacia alla mia “regola”.
Anche in questo viario, nei pezzi in cui espongo le mie teorie o riflessioni, sto sempre ben attento a non cercare di convincere il lettore della bontà delle mie idee ma cerco invece di limitarmi a esporle in maniera chiara e sistematica. Spiego i miei ragionamenti e il mio punto di vista ma non cerco di convincere.
Non so se chi mi legge ne ha la percezione: non si tratta tanto di mentire o dire la verità quanto mostrare i fatti (e le idee) da un punto di vista più neutro possibile.
E ora?
Beh, adesso credo di essermi liberato da questo strano “condizionamento”: in situazioni analoghe cercherei di elencare ordinatamente le informazioni neutre ma poi mi offrirei di dare anche la mia opinione “completa” al riguardo.
Conclusione: ne ho già accennato qualche tempo fa ma ogni tanto ho la sensazione che la mia vita sia già stata scritta e vissuta, che ripeto una parte recitata altre volte. Ecco: quella consapevolezza improvvisa, non cercata, così forte e irrazionale mi dà l'idea di un qualcosa di esterno, inserito a forza nel mio cervello. Come se degli alieni in un'astronave invisibile mi avessero puntato contro il raggio di un loro straordinario marchingegno per impiantarmi nel cervello un loro condizionamento...
Sembra una buona idea per un racconto di fantascienza: l'umanità come un esperimento sociologico di una razza aliena, con alcune persone manipolate più o meno direttamente per ottenere specifici effetti. Anche nella storia vi sono delle vicende così improbabili che sembrano provocate da registi occulti...
Nota (*1): una severissima professoressa di italiano che ci riempiva di esercizi per casa.
venerdì 19 febbraio 2016
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