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mercoledì 18 novembre 2015

Decameron sesto giorno: W frate Cipolla!

Dopo averci infilato almeno un paio di altri libri nel mezzo, ho finalmente proseguito nella lettura del Decameron.
Come al solito non avevo preso appunti e adesso non ricordo niente: ho deciso che dalla prossima giornata prenderò delle note e, se poi il materiale sarà troppo, ne escluderò un po'...

Il tema della sesta giornata sono i motti di spirito o di arguzia che risolvono una situazione difficile: forse anche per questo i racconti sono particolarmente brevi, tutti tranne l'ultimo di una o al massimo due pagine. Hanno più la forma di aneddoti che di racconti veri e propri.

La serie di novelle ha un curioso preambolo: la lite fra due servitori. Ho capito poco lo scopo di questa divagazione: forse è per far calare meglio il lettore nell'argomento della giornata. La lite era sul fatto che le ragazze arrivassero o no illibate al matrimonio e se poi restassero fedeli al marito: alla fine vince la tesi di Licisca (una delle litiganti (*1)) secondo la quale sei volte su sette le giovani riescono a eludere la tutela di padre e fratelli e a prendersi il proprio piacere, evidentemente ricorrendo a sagacia e astuzia, e continuano poi a farsi beffe del marito anche dopo il matrimonio.

Le mie perplessità riguardano anche il comportamento delle protagonisti del Decameron che, udendo la storia, ridono a crepapelle: che significa? Le loro risa sono una conferma dell'universalità delle parole di Licisca oppure ridono del popolino?

La prima novella non mi è piaciuta: si tratta di una semplice battuta con cui una donna fa capire a un cavaliere, evidentemente non un grande affabulatore, di smettere di narrare un racconto: magari mi sono sfuggiti dei doppi sensi...

Anche la seconda novella non mi ha impressionato: suppongo che per apprezzarla pienamente si debba conoscere, o intuire, quali fossero le normale relazioni fra le diverse classi sociali al tempo del Boccaccio. Solo in questo modo si può apprezzare come, grazie alla propria arguzia, un semplice oste riesca a divenire amico di un uomo molto importante.

Solo grazie alle note è possibile capire la battuta della terza novella dove la protagonista allude “all'avarizia catalana e angioina” evidentemente famosa al tempo del Boccaccio ma di cui io non avevo idea...

Quarta novella, altra battuta che mi lascia piuttosto indifferente: un po' meglio delle precedenti ma non troppo. Provo a sintetizzarla per dare l'idea: un cuoco incaricato dal proprio padrone di cucinare una gru ne regala una coscia alla propria amante; ovviamente il padrone quando si accorge che manca una zampa si arrabbia; il cuoco gli dice che tutte le gru hanno una zampa sola ed è pronto a dimostrarlo se domani l'accompagnerà al lago; la mattina successiva cuoco e padrone sono sulla riva del lago dove le gru ancora dormono in equilibrio su una zampa; il cuoco dice quindi al padrone che le gru hanno solo una zampa ma egli, sempre arrabbiato, le scaccia gridando e queste svegliatesi stendono anche l'altra zampa e volano via; il cuoco commenta che avrebbe dovuto gridare alla gru anche la sera precedente per far apparire la coscia mancante; grandi risate, il cuoco è salvo...

La quinta novella sembra proprio un aneddoto e non mi stupirei se il Boccaccio si fosse limitato solo a qualche abbellimento secondario: i protagonisti sono infatti Giotto e un tale messer Forese, apparentemente all'epoca molto noto...

Sesta novella: altra battuta sulla bruttezza dei membri della famiglia dei Baronci (famosi appunto per la loro bruttezza) usata per dimostrare che essi sono i più “gentili” (*2).

Novella vagamente interessante la settima: sembra che a Prato ci fosse una legge che puniva le mogli adultere colte sul fatto mettendole al rogo. Già il Boccaccio considera tale pena “non men biasimevole che aspra” ma è interessante l'argomentazione: semplicemente la legge non fa distinzione fra le mogli adultere e le prostitute; sembra insomma che, per opinione comune, fosse quindi ritenuto giusto punire le prostitute in tal guisa! Scrive infatti il Boccaccio: «...fosse arsa quella donna che dal marito fosse con alcuno suo amante trovata in adulterio, come quella che per denari con qualunque altro uomo stata trovata fosse». Nessuna menzione alla pena per l'adultero...
La protagonista si salva con la seguente argomentazione: prima chiede al marito se è vero che ella mai si fosse a lui rifiutata e, dopo la sua conferma, dice «Adunque... ...domando io voi, messer podestà, se egli ha sempre di me preso quello che gli è bisognato e piaciuto, io che doveva fare o debbo di quel che gli avanza? Debbolo io gettare ai cani? Non è egli molto meglio servirne un gentile uomo che più che sé m'ama, che lasciarlo perdere o guastare?»

Poco più di una semplice battuta l'ottava novella...

Più carina la nona: in questo caso il protagonista si salva da una zuffa con degli attaccabrighe grazie a un discorso che, solo quando lui se ne è da tempo andato, essi capiscono essere una elaborata battuta offensiva nei loro confronti.

La decima novella, l'unica più lunga di un paio di pagine, mi è invece piaciuta: c'è anzi una mezza paginetta che mi ha fatto sinceramente ridere! Peccato che sia un po' troppo lunga per copiarla qui di seguito...
Frate Cipolla, un frate ignorante ma sveglio di mente e sciolto di lingua, viaggia di paese in paese raccogliendo le offerte per la vicina abbazia. Per invogliare i fedeli a essere più generosi mostra loro una piuma di pappagallo (animale praticamente sconosciuto all'epoca nella zona) dicendo che appartiene all'arcangelo Gabriele. Arrivato in un paese però dei suoi amici buontemponi gliela sostituiscono con dei carboni: così, quando frate Cipolla apra la cassettina per mostrare ai fedeli la piuma vi trova tutt'altro. Ovviamente il frate non si scompone e inventa sul momento una frottola che lo cava d'impiccio facendogli anzi intascare delle offerte più ricche del solito...
Bella la tecnica con la quale il Boccaccio fa capire il processo mentale compiuto dal suo protagonista: inizialmente divaga a casaccio, poi ha l'idea giusta e ricombina abilmente insieme tutto il groviglio di discorsi della sua concione.

Conclusione: mi auguro che dalla prossima giornata le novelle inizino a essere almeno un po' boccaccesche!

Nota (*1): Non so se sia un caso, o se magari abbia un'altra origine, ma mi ha colpito l'assonanza fra il nome Licisca e quello di Lisisca, soprannome un po' irriguardoso di Messalina: se davvero l'accostamento fosse voluto allora l'opinione del Boccaccio sulla serva sarebbe ben chiaro...
Nota (*2): suppongo nel senso di nobile nascita o di doti spirituali...

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