Mentre scrivevo Re Stefano ho fatto un'interessante riflessione. Poi però, per non appesantire il pezzo con osservazioni non troppo attinenti all'argomento, non ne ho neppure accennato.
Nel breve elenco dei tanti difetti del Il talismano scrivo: «Il protagonista, un ragazzino che le avventure dovrebbero far maturare, non è convincente: dovrebbe avere 12-13 anni ma non lo si percepisce minimamente.»
Perché non è convincente? Cosa renderebbe credibile un personaggio di 12-13 anni?
In altre parole cosa definisce e caratterizza quella particolare età di preadolescenza?
Mi chiedevo infatti come King avrebbe dovuto/potuto mostrare l'evoluzione del personaggio per renderla più verosimile.
Io credo siano almeno tre gli elementi che individuano quella specifica età.
Il primo è l'aspetto fisico. Il problema è che, in un romanzo che si svolge in pochi mesi, è difficile giustificare un cambiamento significativo in tal senso. Qualcosa King ha tentato in tale direzione ma, da una parte non era evidentemente interessato a un'evoluzione fisica del proprio protagonista e, da un'altra, si è limitato ad accenni superficiali: qualcosa tipo “una bellezza che sboccia” che io, forse erroneamente, avevo inteso fondamentalmente come interiore.
Il secondo elemento è il rapporto col sesso e in particolare con l'altro sesso. Da questo punto di vista le opportunità sarebbero state facili e molteplici ma gli autori le hanno totalmente ignorate.
Il terzo elemento, ed è questo il nocciolo della mia riflessione, sono le scelte. Sono infatti le decisioni che si prendono che definiscono il carattere e la maturità di una persona. È chiaro che nell'idea degli autori il viaggio del protagonista avrebbe dovuto corrispondere a una sua crescita interiore ed è questo l'aspetto che è venuto meno privando il romanzo del suo significato più profondo. Il protagonista non fa scelte da ragazzino né c'è un'evoluzione nella qualità e nella profondità delle decisioni che è chiamato a prendere: questo è il difetto e la mancanza principale del Talismano...
Come spesso accade una riflessione ne richiama un'altra. Mi sono ricordato del fondamentale pezzo (agosto 2012) Puericultura base: già allora ero giunto alla conclusione dell'importanza del saper prendere le proprie decisioni e di come, da questo punto di vista, la scuola ignorasse totalmente tale fattore. Il “saper prendere decisioni” infatti non è materia di studio, eppure è proprio ciò che più manca ai ragazzi che escono dalla scuola e si trovano ad affrontare il mondo dovendo indirizzare in maniera determinante la propria vita senza avere né l'esperienza né, talvolta, il coraggio per farlo con la dovuta fermezza e intraprendenza.
Sempre in Puericultura base fornivo dei suggerimenti su come la scuola avrebbe potuto affrontare la questione.
Aggiungo adesso che ciò che scuola e famiglia dovrebbero fare è porre ai bambini/ragazzini almeno un paio di decisioni da prendere quotidianamente. Ma è importante che non si tratti di alternative ovvie, dove una di queste è estremamente preferibile all'altra: in tal caso la scelta ovvia non è istruttiva e se il giovane scegliesse quella errata i genitori/maestro sarebbero costretti a intervenire annullando la scelta fatta e il suo valore pedagogico.
Ad esempio è sbagliata la domanda “Vuoi fare uno sport o passare tutti i pomeriggi in casa da solo?”, piuttosto “Vuoi iscriverti a pallavolo oppure a calcio?”; è sbagliato chiedere “Vuoi fare il riassunto di queste due paginette oppure imparare a memoria questa poesia?” piuttosto “Vuoi imparare a memoria questa poesia corta e difficile oppure questa lunga ma facile?”. Sbagliato “Per contorno vuoi zucchine lesse o patate fritte?”, corretto “Per contorno vuoi zucchine lesse o spinaci?”
Idealmente di dovrebbe cercare di proporre alternative scelte ciascuna dal 50% dei bambini dove cioè nessuna delle opzioni è chiaramente migliore delle altre. In questa maniera i bambini insoddisfatti inizierebbero a riflettere sull'errore commesso, imparerebbero a conoscersi meglio e starebbero più attenti nel futuro a valutare più accuratamente i pro e i contro della opzioni proposte.
Sono sicuro che in questa maniera si formerebbero uomini e donne molto più sicuri di sé, che saprebbero ciò che vogliono e disposti a impegnarsi fino in fondo per ottenerlo.
Conclusione: mi piacerebbe proprio sperimentare questa teoria... Mi fate ministro dell'Istruzione?
alla prima stazione
1 ora fa
Il viaggio in sè non è alcuna garanzia di crescita. Il turismo di massa lo dimostra quotidianamente, con il suo spostare masse di consumisti da un luogo all'altro.
RispondiEliminaMi ricordo il protagonista di Capitani coraggiosi, di Kipling: solo il cambio brutale di viaggio, da quello lussuoso per bamboccio figlio di papà a quello spartano di ragazzo apprendista in un manipolo di pescatori, è occasione di crescita.
Ho sempre amato quel romanzo.
UUiC
Sono d'accordo!
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