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lunedì 7 novembre 2022

Alcune leggi della politica del potere

Ieri ho letto qualche altra pagina di “Miseria dello storicismo” di Popper: sempre fuffa!
Davvero è una lettura noiosissima in cui si almanacca su questioni banali la cui analisi richiederebbe poche pagine e non un libro intero.
Come ho già accennato altrove la mia sensazione è che lo scopo di Popper fosse, senza affermarlo esplicitamente, politico. Dimostrare la falsità della dialettica storica arrivandoci “per caso”, facendo cioè finta che si tratti di un risultato imprevisto di uno studio imparziale.
Ovviamente, lo ripeto, questa è solo una mia sensazione: non ho neppure letto la biografia di Popper su Wikipedia…
Ed è anche giusto aggiungere che avendo letto (beh, sono a un po’ più di metà) solo questa sua opera sarebbe azzardato trarre conclusioni definitive e affrettate su Popper: vero è che questo testo così superficiale non mi pare deporre a suo favore…

Comunque ieri mi sono imbattuto in una pagina incidentalmente interessante.
Se ben ricordo, nel sottocapitolo in questione, Popper afferma che ogni legge naturale può essere espressa in forma negativa. Popper chiama questo tipo di enunciazione “forma tecnologica” (perché non “apofatica”?) e spiega che è utile perché ne evidenzia i limiti e, come ha spiegato in un’altra opera (in “Logica della scoperta scientifica”), questo è molto utile.
Già qui, tanto per cambiare, avrei da ridire: non mi sembra così automatico che ogni legge naturale possa ridursi in una o più enunciazioni negative. Ma è inutile approfondire l’argomento: tanto si tratterà di chiacchiere (per comprendere lo scopo di questo sottocapitolo avrei dovuto leggere anche il successivo ma non l’ ho ancora fatto!)…

Comunque in una pagina porta degli esempi tratti dalla teoria della “politica di potere” che mi sembrano molto interessanti in sé. In particolare sto cercando di capire se vi possono essere sovrapposizioni o nuovi spunti per il mio capitolo dell’Epitome intitolato “Le leggi del potere”. In questo pezzo voglio discuterli uno a uno.

1. «Non si può introdurre una riforma politica senza causare alcune ripercussioni poco desiderabili dal punto di vista dei fini cui si tende» (*1).
Per prima cosa qui siamo su un piano leggermente diverso dal mio: le mie leggi si applicano in genere a tutti i gruppi sociali, qualche distinzione a volte la faccio in base alla loro forza relativa nella società, ma non vado mai a specificare leggi per singoli gruppi.
In questo caso l’agente sebbene non sia specificato dovrebbe essere il potere politico al governo: ci si concentra infatti sull’effetto di un’azione, ovvero dell’introduzione di una riforma politica.
Nel complesso mi sembra una legge piuttosto ovvia che si sovrappone a quella che è chiamata “eterogenesi dei fini” ovvero che ogni azione può provocare effetti imprevisti. Qui, in più, si afferma che questi effetti imprevisti ci sono sempre e che sono indesiderati.
Mi piacerebbe saperne di più ma mi pare plausibile. Io sfrutto un concetto analogo in [E] 5.11 dove scrivo: «Ma ecco che si rivela anche il paradosso: qualsiasi decisione prenderà questo potere è impossibile che tutti i suoi elettori ne siano ugualmente soddisfatti: inevitabilmente alcuni interessi verranno premiati e altri sfavoriti. Questo porterà a divisioni, a correnti interne che sostengono strategie (interessi) diversi. Prima o poi questi contrasti diventeranno abbastanza forti da spaccare il partito dividendo il potere, che prima era coeso e unico, in nuovi poteri separati.
In generale il potere assoluto è condannato a rimanere inerte per conservare lo status quo oppure, qualsiasi decisione prenda, provocherà tensioni interne che, presto o tardi, porteranno alla sua frantumazione.
»

2. “Non si può introdurre una riforma politica senza rafforzare le forze che vi si oppongono, approssimativamente in ragione diretta dell’importanza della riforma.» (*1)
Anche qui il livello di astrazione non è lo stesso del mio: questa è una legge che si applica fra poteri di tipo politico, semplificando fra governo e opposizione.
Le mie leggi del potere si applicano a un livello di astrazione più profondo. Per esempio questa legge la si può ricavare facilmente dall’applicazione della legge della crescita: il governo fa una legge e l’ opposizione, per incrementare la propria forza ([E] 5.2), ne denuncia i limiti all’elettorato in maniera da ottenere in prospettiva più voti (e quindi più forza) alle elezioni successive. Questo, ovviamente, in una democrazia funzionante in cui non tutti i partiti sono sistemici ([E] 11.4).
Questa legge mi pare non solo vera ma anche ovvia.

3. «Non si può fare una rivoluzione senza causare una reazione.» (*1)
Questa è la legge che ieri mi è rimasta più impressa dandomi da pensare.
Inutile dire che mi ha ricordato la terza legge della dinamica di Newton: “All’applicazione di una forza ne corrisponde sempre una uguale e contraria”.
Mi chiedevo se questo poteva essere anche un principio generale fra i gruppi (o poteri) così come li definisco io. E in effetti in [E] 5.8 (“La legge della variazione della forza”) affermo qualcosa di simile: ovvero che all’incremento di forza di un potere corrisponde la sua diminuzione in un altro (con importanti conseguenze nella dicotomia fra parapoteri e democratastenia). Ma non è la stessa cosa: nella mia legge mi soffermo sull’effetto finale dell’azione di un potere (con tanti se e ma che per semplicità qui non riporto). La legge qui enunciata invece presuppone la comprensione dell’azione nelle parti coinvolte: non solo nel gruppo che la compie ma anche in quello che la subisce. Il gruppo che subisce un’azione dovrebbe essere consapevole di essa per poter reagire (anche se si potrebbe differenziare per reazione "consapevoli" e "automatiche").
Molto spesso non è così: per esempio la popolazione raramente si rende conto delle implicazioni che alcune decisioni del governo avranno sulla loro vita, in genere la reazione è di indifferenza, ovvero manca.
Ma in realtà questa legge non parla di semplici “azioni” ma di “rivoluzione”. Non afferma cioè che a ogni azione vi è una reazione ma che ci sarà sicuramente di fronte a una rivoluzione!
Una rivoluzione credo la si possa considerare come un’azione talmente grande che non passa inosservata e, quindi, provoca una reazione da parte di tutte le persone coinvolte, ovvero dell’intera società.
Caso vuole che pochi minuti dopo aver letto Popper sia passato a Hobsbwam imbattendomi nel seguente paragrafo: «Tutte queste forze si opponevano alla rivoluzione sociale e alla radice di ciascuna di essesi trovava senz’altro una reazione contro la sovversione del vecchio ordine sociale negli anni 1917-20.»!(*2)
Io credo che questa legge la potrei inserire nella mia epitome aggiungendovi che la parte che subisce l’azione, per reagire a essa, dovrà esserne consapevole e prevederne effetti negativi sulla propria forza. In questo caso infatti entrerebbe in azione la legge della conservazione ([E] 5.1).
Questa legge della reazione spiegherebbe poi teoricamente il comportamento della propaganda nella comunicazione: se l’azione avrà effetti negativi sulla popolazione, prima andrà taciuta (insomma si cercherà di farla passare inosservata) e, se ciò non fosse possibile, si dovrà cercare di far credere che abbia effetti complessivamente positivi sulla popolazione o, almeno, non negativi. In una democrazia funzionante, con più fonti di informazioni se non imparziali almeno contrapposte, l’opposizione, come visto precedentemente, si attiverà per dimostrarne invece le debolezze e i difetti del provvedimento per cercare di guadagnare così consenso. Questo però avviene solo in una democrazia non degenerata.

4. «Non si può fare una rivoluzione vittoriosa se la classe dirigente non è indebolita da dissensi interni o da una sconfitta in guerra.» (*1).
Nì. In [E] 7.7 analizzo dettagliatamente tutti i fattori da considerare. La legge in questione è un po’ troppo semplicistica anche se, direi, genericamente corretta.

5. «Non si può dare a un uomo il potere sopra gli altri uomini senza che egli abbia la tentazione di abusarne – tentazione che aumenta approssimativamente in ragione del potere esercitato e a cui pochissimi sono capaci di resistere.» (*1)
Questa legge mi piace! E vi aggiungo il “corollario” di mio zio Gip che ripeteva sempre scherzosamente: “la prima cosa che l’italiano fa del potere è abusarne!”.
Ma la valenza di questa legge non mi sembra solo individuale: equivale infatti a dire che ogni strumento abusabile prima o poi verrà abusato che, in pratica è il nocciolo di quanto ho recentemente scritto in Dall’uso all’abuso
Del resto se l’unico vincolo all’abuso di un potere è la morale, e visto che questa non è costante e, soprattutto, del limite umano che ho chiamato dell’“Inadeguatezza morale” ([E] 1.1), prima o poi, più prima che poi, verrà abusato.
Vera poi anche la specificazione che più il potere è forte e meno è vincolato e più diviene probabile che venga abusato...

Conclusione: insomma stavolta Popper, sebbene involontariamente, mi ha portato un ottimo spunto e uno discreto!

Nota (*1): tratto da “Miseria dello storicismo” di Popper, (E.) Feltrinelli, 2019, trad. Carlo Montaleone, pag. 75.
Nota (*2): tratto da “Il secolo breve” di Eric J. Hobsbwam, (E.) BURexploit, 2009, trad. Brunello Lotti, pag.141.

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