Pochi giorni fa ho finito di leggere un libro che è stato una piacevole sorpresa: l'avevo scelto completamente a caso e temevo che sarebbe stato molto noioso, invece mi è piaciuto!
Si tratta di Guglielmo Tell di Federico Schiller, Biblioteca Universale Rizzoli, 1957, trad. Liliana Scalero. Si tratta di un dramma che fu pubblicato e rappresentato nel 1804: il suo argomento è la libertà e, anche Guglielmo Tell, più che il protagonista sembra un personaggio secondario.
Probabilmente nella traduzione in italiano l'opera perde tantissimo della sua poesia: sopravvivono delle belle immagini ma come al solito devono essere le ombre sbiadite della versione originale.
La trama poi non è particolarmente elaborata e anzi è decisamente piatta; manca poi un climax e, anzi, è pure mal bilanciata perché, in pratica, dalla premessa si passa direttamente all'epilogo!
Tre cantoni svizzeri del XIV (ricordo solo quello di Uri, gli altri hanno nome più “difficili”), che godono di una semi autonomia, sono oppressi dai balivi (funzionari con ampi poteri amministrativi e militari) rappresentanti dell'imperatore. Contemporaneamente l'Austria asburgica cerca di inserirsi e portarli dalla propria parte. Alla fine, dopo varie angherie, le popolazioni dei tre cantoni insorgono e conquistano la completa indipendenza formando il nucleo iniziale di quella che diverrà la Svizzera. Guglielmo Tell è solo un cacciatore, forte e coraggioso, dalla mira infallibile con la balestra, che compare qua e là in qualche scena.
Detta così non si capisce che cosa mia sia piaciuto visto che la poesia dalla traduzione non la si può apprezzare, manca un vero protagonista, la trama è piatta e senza climax: in realtà ho apprezzato il calore degli ideali, la passione per la libertà che trasuda da ogni dialogo.
Davvero mi sono quasi commosso leggendo dell'amore per la libertà di questi orgogliosi montanari: ovviamente lo Schiller era tedesco e probabilmente quando scrisse l'opera pensava alla Germania del proprio tempo che, come l'Italia, era divisa in numerosi piccoli stati.
Ma nel risorgimento italiano, per quel che ricordo dalle mie esperienze scolastiche, la parola d'ordine era l'“Italia”, nell'opera di Schiller invece è “libertà”.
Non si tratta di una distinzione di poco conto: l'Italia di per sé cosa significa? È solo un contenitore, uno scatolone geografico: ciò che veramente contano sono i principi.
Forse è una coincidenza ma adesso abbiamo il nostro “carrozzone Italia” ma della libertà che ci viene mangiata a piccoli morselli (*1) nessuno se ne preoccupa: eppure cos'è più importante una scatola priva di principi o la libertà?
Non so, forse voglio leggere troppo da questi pochi accenni: magari le altre opere del risorgimento tedesco sono tutte incentrate su “Germania! Germania!” o magari i miei ricordi scolastici sono sbagliati e anche da noi si gridava “Libertà! Libertà!”...
Comunque sia mi sono subito immedesimato con i patrioti svizzeri e ho apprezzato la loro strenua ricerca della libertà così come l'ha immaginata lo Schiller.
Comunque mi hanno colpito un paio di altri particolari.
Nella scena prima del secondo atto fa la sua comparsa uno dei tanti personaggi: il barone di Attinghausen, un venerabile vecchio, ancora fiero e nobile ma piegato dall'età (ha 85 anni).
Leggendone la descrizione mi è subito venuto in mente il re Theoden di Tolkien: anche lui, prima dell'intervento di Gandalf, è privo di forza ma quando lo stregone gli fa afferrare l'elsa della propria spada ecco che re Theoden recupera le proprie energie e si alza pronto a combattere per la libertà della Terra di Mezzo. Questa è probabilmente la parte del Signore degli Anelli che più mi piace...
E poi nell'atto quarto, alla scena seconda, la sensazione è confermata e amplificata: il vecchio barone è a letto morente ma ha un ultimo momento di lucidità che lo fa alzare sul letto e che mi ha ricordato fortemente il momento in cui Gandalf rompe l'incantesimo che opprime re Theoden.
Dice un personaggio descrivendo il barone: «Guardate quanta luce splende nei suoi occhi! Questa non è la natura che si spegne: è il brillare d'una nuova vita»
Ma non sono solo le immagini è anche la melanconia del barone che ricorda quella di Theoden.
Sono convinto che Tolkien volontariamente o incoscientemente si sia pesantemente ispirato a questo personaggio di Schiller per il suo Theoden (poi controllerò su Wikipedia se dice qualcosa al riguardo...).
Il secondo particolare che mi ha colpito è una breve battuta di Tell nella prima scena dell'atto terzo: Tell è insieme alla moglie che cerca di dissuaderlo dal correre rischi e gli ricorda che è sposato e ha due figli; in particolare lei gli rimprovera di aver agito avventatamente e rischiato la vita manovrando una barca su un lago in tempesta per salvare un uomo inseguito dalle guardie del balivo.
Tell risponde alla moglie: «Chi pensa troppo alle cose non concluderà mai molto».
Tale frase mi ha colpito perché ricorda molto lo stesso concetto che è ripetuto più volte, in forme diverse, nell'Hagakure (v. Molte varie) che a sua volta mi era rimasto impresso proprio perché non mi trovava d'accordo. Io infatti sono proprio la persona che “pensa troppo” e odio agire senza aver avuto modo di riflettere con calma (*2).
Ad esempio:
«Un uomo calcolatore è un vile. ...» (*3)
«Quando si prende la decisione di abbattere una persona, sorge subito la paura di non riuscire nell'impresa, ma tergiversare, e cercare nel frattempo altri mezzi non serve a niente. Se si rimanda un'azione, la forza di volontà si affievolisce e non si riesce a conseguire il successo nell'impresa. Nella Via del Samurai bisogna agire con prontezza e andare avanti colpendo furiosamente.» (*3)
«... Se invece ti metti a pensare come mandare avanti le cose, ti vengono subito dei dubbi e certamente non avrai successo.» (*3)
Non le ho ritrovate ma ho la forte sensazione di aver letto delle frasi ancora più simili a quella pronunciata da Tell: in un prossimo pezzo magari vedrò di difendere il mio comportamento riflessivo dalle accuse di Tsunetomo e di Guglielmo Tell!
Un'ultima breve riflessione. Mentre cercavo le frasi riportate qui sopra mi è capitato di leggere a mio padre il seguente passaggio: «Una persona dal sorriso forzato, se uomo, è un vile, se donna, una dissoluta.» (*3)
E lui ha acutamente osservato che i giapponesi devono avere delle idee molto nette e decise: ma io però mi sono sentito in dovere di correggerlo subito. Secondo me non è che i giapponesi siano così schematici nel loro modo di pensare: piuttosto non si preoccupano di esprimere tutto il contesto della validità di una certa affermazione. Sta al lettore usare la propria intelligenza per capire quando un insegnamento è valido e quando invece valga l'eccezione.
Non per niente non si parla di regole per i monaci buddisti o di regole per i samurai ma invece di Via del Buddhismo e di Via del Samurai: le “vie” infatti indicano delle direzioni ma non vanno seguite pedissequamente: se c'è una pozza sulla nostra strada la si salta, se c'è un palo gli si gira intorno...
Evidentemente i giapponesi amano la sintesi (vedi anche gli haiku) a alle spiegazioni articolate, lunghe ed estensive preferiscono i piccoli dettagli da cui ricostruire il tutto: io almeno interpreto così le affermazioni spesso nette e concise dell'Hagakure...
Conclusione: ho saltato molto di palo in frasca oggi... sarà il caldo?
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