Oggi scriverò una nuova puntata della mia serie sul
Decameron anche se non ne ho molta voglia: il problema è che ho ormai sono passati molti giorni da quando lessi le novelle della quarta giornata e, senza appunti, ho paura di non ricordarmele bene... anzi probabilmente le avrò già mezze dimenticate...
Comunque proverò a sfogliare le pagine e vediamo cosa viene fuori!
L'argomento della quarta giornata è quello degli amori infelici. Il tema delle novelle non nasce dal nulla ma viene scelto dal re/regina della giornata successiva: in questo caso è il turno di Filostrato, uno dei tre uomini, e ho la convinzione che in questo personaggio ci siano molti elementi autobiografici dell'autore. Come al solito non ho voluto controllare su wikipedia o altrove per non farmi influenzare ma sicuramente lo farò una volta terminata la lettura.
Nelle note è spiegato che l'etimologia di “Filostrato” è quella di “amico della guerra” ma il Boccaccio l'aveva erroneamente interpretata come “abbattuto dall'amore” e, ovviamente, alla luce di questo secondo significato devono essere lette le azioni e le parole di tale personaggio.
Filostrato, deluso dall'amore, vuole che si raccontino novelle dal finale più straziante possibile in maniera da dare sollievo al proprio animo.
Filostrato, nel suo lungo racconto introduttivo, accenna anche all'inizio di una novella dove un anziano padre, molto pio, si rifugia in un eremo con il figlio piccolissimo. Solo il genitore ha contatti col mondo esterno andando periodicamente a un mercato a fare gli acquisti essenziali e lasciando il figlio chiuso a casa. Quando ormai il bimbo è divenuto adolescente il padre è ormai troppo vecchio per andare da solo al mercato e così si fa accompagnare dal figlio: quando questi vede per la prima volta una ragazza chiede al padre come si chiami e dice che è bellissima...
Il racconto si interrompe qui, lasciando aperte molte possibilità, ma io ne sono rimasto colpito per un altro motivo: la storia mi ha ricordato la parte iniziale della
Vita di Siddharta dove il padre rinchiude il giovane Buddha nel palazzo reale in maniera che non conosca i dolori del mondo e non scelga così di farsi monaco come era stato profetizzato.
Sì, chiaramente non c'è nessuna relazione diretta fra le due storie: però si intuisce come il tema della futilità di proteggere indefinitamente un figlio dal mondo, con i suoi pericoli e i suoi dolori, debba essere comune...
La prima novella è effettivamente molto drammatica e forse è quella che mi è più piaciuta dell'intera giornata. Il padre fa uccidere il giovane amante della figlia e questa, presa la testa dell'innamorato, la metta in una grande brocca che riempie di acqua, lacrime e veleno e da cui poi beve per uccidersi...
Bella anche la figura della nobile protagonista che, alla scoperta della morte dell'amato, invece di sciogliersi in pianti non si scompone («
...fu assai volte vicina... a mostrarlo [il proprio dolore] con romore e con lagrime, come il più le femine fanno... ...ma pur, questa viltà vincendo il suo animo altiero, il viso suo con meravigliosa forza fermò...») e risponde con fierezza al padre: «
Tancredi [cioè il padre a cui si rivolge], né a negare né a pregare son disposta, per ciò che né l'un non mi varrebbe né l'altro voglio che mi vaglia...»: troppo bello! Novella molto
splatter ma mi è piaciuta...
La seconda novella, per alleggerire la tensione, è invece piuttosto divertente: nel finale l'amante viene incarcerato ma, siccome è un malvagio, nessuno se ne duole.
Nelle note si viene a scoprire un fatto interessante: Venezia era ritenuta dai fiorentini “l'asilo di ogni male”. Perché? Forse per rivalità commerciale?
La terza storia è di nuovo drammatica: tre giovani innamorati scappano a Creta con tre sorelle. Invidie e tradimenti, veri e presunti, spezzano però l'idillio e conducono alla morte, a uno a uno, i protagonisti...
Di nuovo Creta (*1)! Come mai questa isola, relativamente insignificante, ha così tanto fascino nell'animo dell'autore? Mi chiedo se in quel periodo fosse avvenuto qualche episodio storico che l'avesse fatta salire all'onore delle cronache fiorentine del tempo...
Al riguardo ho appena fatto una ricerca su Google con le seguenti chiavi: “Creta Firenze XIV XIII secolo” e già nella prima pagina sono apparsi dei risultati interessanti!
Creta (addirittura dal 1209) e Cipro appartenevano a Venezia nel XIV secolo (il
Decameron è del 1351) e si spiega anche “l'antipatia” dei fiorentini verso Venezia: Firenze era stata alleata di Ancona e Ragusa (ora chiamata Dubrovnik (*2)) con le quali aveva costituito una via commerciale alternativa a quella veneziana. Ho fatto solo una ricerca veloce e non ho trovato traccia di conflitti diretti fra Venezia e Firenze ma ho la sensazione che si vedessero rispettivamente come amiche di nemici...
Anche la quarta novella mi ha lasciato piuttosto indifferente: un racconto di avventura con abbordaggi e battaglie in mare che ricorda un po' Salgari!
Da notare forse come il re di Sicilia, per compensare il re di Tunisi (musulmano) di un torto subito, decida di condannare a morte il proprio nipote: «
...volendo [preferendo] avanti senza nepote rimanere che esser tenuto [considerato] re senza fede [che non manteneva la propria parola]»
Non so, suppongo che queste novelle suonassero più drammatiche nel XIV secolo, ma io le ho trovate piuttosto noiose e scontate. Non fa eccezione la quinta novella: Lisabetta, la protagonista, ha una relazione con un tale Lorenzo ma i fratelli di lei la scoprono e, per punire l'oltraggio subito, uccidono Lorenzo e lo seppelliscono lontano. Lorenzo appare però in sogno a Lisabetta e le dice dove è stato ucciso: lei va sulla sua tomba e dal cadavere taglia la sua testa che riporta a casa. La mette in un vaso e ci pianta del basilico che annaffia con le proprie lacrime. I fratelli, insospettiti, le tolgono anche il vaso di basilico e quando vi scoprono la testa di Lorenzo si danno alla fuga mentre la sorella muore di dolore...
Anche la sesta novella mi ha lasciato piuttosto indifferente: ho notato solo l'accenno indiretto alla corruzione del podestà che sfrutterebbe volentieri della propria posizione per approfittarsi della bella protagonista di turno...
La settima novella mi ha involontariamente fatto sorridere: due amanti si appartano in un bel giardino e il ragazzo si pulisce i denti con le foglie di una rigogliosa pianta di salvia.
Devo premettere che tempo fa lessi appunto che la salvia può essere usata per pulirsi i denti e io stesso ho provato a farlo: la sensazione di pulito è notevole anche se ha il difetto di non raggiungere le fessure fra i denti come riesce invece a fare lo spazzolino...
Però nella novella il protagonista muore subito dopo aver adoperato la salvia e questo mi ha incuriosito non poco!
Durante la lettura mi ero divertito a cercare di anticipare quale potesse essere il motivo della morte del giovane ma con scarso successo: avevo supposto che la “salvia” non fosse salvia ma un'altra pianta velenosa di aspetto simile: però questa ipotesi non mi convinceva perché la salvia è una pianta troppo comune per essere confusa...
E infatti la causa era un'altra: il giudice ordina di scavare sotto tale pianta e si scopre che «
Era sotto il cesto di quella salvia una botta [botte] di meravigliosa grandezza, dal cui venenifero fiato avvisarono quella salvia essere velenosa divenuta.»
Ecco, a questa descrizione, non ho potuto fare a meno di immaginarmi tale botte come il corrispondente trecentesco dei bidoni di rifiuti tossici odierni: già allora si aveva il buon senso di capire che se si seppellisce nel terreno qualcosa di velenoso, prima o poi la contaminazione raggiunge la superficie...
Anche l'ottavo racconto è piuttosto noioso: i giovani si amano; lui viene mandato lontano, lei viene fatta sposare, lui torna e muore di dolore, lei pure. Sbadiglio...
Almeno la nona novella ha un po' di apprezzabile troculenza: il marito scopre l'amante della moglie, l'uccide e ne dà il cuore cucinato, come fosse un manicaretto, alla consorte che, quando scopre che ciò che ha mangiato non sono i “Quattrosalti in padella”, si getta dalla finestra.
Mi ripeto: probabilmente nel XIV secolo queste storie erano affascinanti e drammatiche ma adesso sembrano solo noiose e scontate...
Come al solito la decima novella spetta a Dioneo e stavolta decide di andare volutamente un po' fuori tema per rallegrare la compagnia intristita dai precedenti racconti.
In effetti la trama è divertente e l'idea di fondo è ancora attuale: l'amante di turno beve per sbaglio un potente sedativo e viene quindi creduto morto dall'amata; per evitare guai l'amata si disfà come può del “cadavere” e qui c'è il colpo di scena: le disavventure dell'amante non sono finite! Il suo corpo è infatti nascosto in una cassa e questa viene rubata da due bricconi cosicché lui si risveglia in casa loro e finisce nella camera delle mogli dei due...
Tutto sommato anche il finale non è triste perché l'amante se la cava e i due bricconi vengono costretti a pagare la cassa che avevano rubato.
Decisamente il colpo di scena della cassa rubata spezza la linearità della trama rendendola più divertente. In effetti c'è tutto un genere di pellicole comiche che si basano su questo stratagemma in cui i colpi di scena si susseguono fra loro costruendo un crescendo di ilarità...
Conclusione: per i racconti di questa giornata avevo grandi speranza e, forse proprio per questo, ne sono rimasto deluso. Solo il primo e l'ultimo racconto mi sono sinceramente piaciuti seppur per motivi diversi...
Nota (*1): ...o era Cipro?
Nota (*2): lo so perché lo zio si arrabbiava sempre quando la sentiva chiamare Dubrovnik...