Sono arrivato a leggere un paio di capitoli dell'Etica nicomachea che ho trovato particolarmente interessanti.
Ricordate il pezzo Aristotele mattina e sera dove, grazie al corso di filosofia di Sandel, avevo intuito che il racconto del Novellino avesse basi “filosofiche” piuttosto solide?
Beh, è proprio così!
Aristotele divide le virtù in dianoetiche, che possono venire apprese con lo studio, ed etiche, che invece si consolidano con l'abitudine.
Virtù dianoetiche sono la sapienza, la saggezza, l'intelligenza (*1), etc...; virtù etiche sono la liberalità, la moderazione, il coraggio, etc...
Ecco quindi che il senso del racconto del Novellino si chiarisce del tutto: per le virtù dianoetiche, se con la vecchiaia si perde il senno, non c'è niente da fare e anch'esse vanno perse; però, le virtù etiche sono indipendenti dalla ragione e sono invece basate sull'abitudine: chi da giovane avrà assimilato tali virtù grazie alla costanza nelle buoni abitudini le manterrà anche nella vecchiaia pur se dovesse perdere la ragione.
Comunque ciò che veramente mi ha colpito è una conseguenza di quanto detto: se le virtù etiche si possono assimilare con l'abitudine allora significa che non sono innate. Lo stesso Aristotele successivamente ribadisce tale concetto.
Appena lessi che le virtù, come il coraggio, si acquisiscono con l'abitudine sono trasalito. Non avevo mai riflettuto sull'argomento ma intuitivamente davo per scontato che le virtù fossero innate e facessero parte del carattere di una persona: tutt'al più immaginavo che potessero essere un po' plasmate e indirizzate durante l'infanzia. Così ho pensato qualcosa tipo: “Ecco un altro abbaglio di Aristotele con cui dovrò convivere nel prosieguo della lettura...”
Comunque ho continuato a pensarci e mi sono reso conto che questa visione di Aristotele ha comunque un grande pregio: grazie all'educazione (del comportamento) e alla volontà l'uomo può migliorare se stesso. Dà speranza. Intuisco che una delle conseguenze sarà che la società dovrà essere costruita in maniera tale da favorire le buone abitudini (*2) e in questa maniera effettivamente si renderà gli uomini migliori in quanto più ricchi di virtù. E gli uomini ricchi di virtù sono più felici. Scopo della società (e quindi della politica) sarà quindi quello di rendere gli uomini felici facendoli più virtuosi.
Bisogna ammettere che le costruzioni di Aristotele sono sempre molto logiche e consequenziali!
Per curiosità ho chiesto anche l'opinione di mio padre: “Secondo te le virtù come il coraggio o la moderazione sono innate o si possono acquisire?”. Lui non ci ha pensato un attimo e mi ha risposto: “Un po' e un po': osservando dei buoni esempi...”
Non so...
Il coraggio mi pare al 100% innato mentre la moderazione può essere influenzata dall'autocontrollo e quindi dall'abitudine. L'abituarsi a contare da 1 a 10 per non rispondere bruscamente...
Parrebbe quindi che le virtù vadano ulteriormente suddivise fra quelle sottoposte alla volontà, come la moderazione, e quelle da essa indipendenti come il coraggio.
Giustamente Aristotele fa partire queste sue teorie morali dalla struttura dell'anima umana: anch'io vedo le virtù come funzioni dell'animo e mi pare che queste diverse tipologie di virtù debbano essere la conseguenza di diversi aspetti della mente. Per chi non mi segue più questo significa che la definizione di Aristotele dell'anima è quantomeno incompleta.
Ma non ho voglia di inseguirlo nei suoi ragionamenti: sicuramente la sua partizione dell'anima sarà basata su altri presupposti dai quali la sua conclusione discende logicamente. In altre parole il problema sarà ancora più a monte...
Comunque ci voglio ancora riflettere...
Una nota di colore divertente: nel terzo capitolo del secondo libro Aristotele presenta un'obiezione alla sua teoria che le virtù si possano acquisire con l'abitudine. Qualcosa del tipo che per agire coraggiosamente si deve già essere coraggiosi e così via per le altre virtù.
Io, senza leggere oltre, ho subito annotato a lapis «Io obietterei che fare non è sufficiente, occorre anche il voler fare». Ovviamente si tratta di una nota scritta a uso personale e quindi non entro nei dettagli che mi sono evidenti.
Il concetto dietro alla mia nota risale allo zoroastrismo (si deve: pensare bene, dire bene e agire bene) e in parte a Kant dove un imperativo categorico per essere soddisfatto va seguito volontariamente (esempio del commerciante che non imbroglia sul resto il bambino solo perché ha paura di poter perdere clienti e non per l'onestà in sé).
Comunque alla pagina successiva anche Aristotele conferma: «[per essere utili alla virtù bisogna che le buone azioni compiute] ...innanzi tutto le si compiano essendone consapevoli, in secondo luogo scegliendole deliberatamente per se stesse, in terzo luogo se anche le compie mantenendosi saldo e inamovibile. (*3)»
Non mi pare un distinguo di poco conto: Aristotele avrebbe dovuto specificare questi punti già nei capitoli precedenti...
Conclusione: mi rendo conto che leggo molto lentamente, avanzando di poche pagine al giorno: certo potrei leggerlo più velocemente ma mi piace rifletterci, come in questo caso, per interiorizzare ciò che capisco. Che senso avrebbe leggere questo libro in pochi giorni se poi non mi restasse nulla o quasi di quanto ho letto?
Nota (*1): non sono sicuro di cosa intenda Aristotele/il traduttore con “intelligenza”...
Nota (*2): come le buone abitudini generano le virtù, così le cattive portano ai vizi.
Nota (*3): questa terza condizione, secondo la nota del mio volume (Etica nicomachea di Aristotele, Ed. Rizzoli, 1986, introduzione traduzione e commento di Marcello Zanatta), significa “vale a dire se le compie per effetto di una consolidata disposizione del carattere (hexis), di modo che gli sia quasi naturale agire in quel modo”. Insomma un imperativo categorico...
giovedì 18 agosto 2016
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