Avevo anticipato (v. Varie di fine agosto) che avrei parlato di ospedali ma in realtà non ne ho molta voglia: dopo tutto si tratta di una frequentazione che, per lo stress emotivo associato, si preferisce dimenticare...
Eppure credo sia giusto scrivere qualcosa anche di questa esperienza: però, invece di ripercorrere le riflessioni accumulatesi giorno per giorno, preferisco limitarmi a ciò che mi ha più colpito.
Prima i fatti: il babbo doveva essere operato per ripulire una carotide intasata dal colesterolo, operazione complicata dal fatto che la stessa carotide era già stata operata per l'identico motivo una decina di anni fa e questo rendeva il tutto più complesso. Ricoverato martedì mattina e operato nel tardo pomeriggio dello stesso giorno dalle 17:30 alle 20:30 anche se l'operazione vera e propria, in sala operatoria, dovrebbe essere durata un'oretta. L'operazione va bene e il venerdì mattina viene già dimesso. Sabato dorme parecchio (non aveva dormito in ospedale), domenica non ricordo, ma lunedì mattina si sente male: è parecchio confuso e ha uno strano tic alla spalla destra (l'unica che muove perché il braccio sinistro è da tempo paralizzato). Codice giallo al pronto soccorso dove arriva alle 12:00. Io lo raggiungo verso le 15:00 e iniziamo una lunga attesa senza notizie: cioè lo visitano subito e gli fanno molte analisi, ma a noi non viene detto niente. Se chiediamo informazioni ci viene sbrigativamente risposto che la neurologa vuole confrontarsi con un altro specialista, oppure che stanno aspettando il risultato di un'analisi o simili.
Le prime vaghe notizie le abbiamo verso le 19:00: solo allora ci viene spiegato (vagamente) cosa stanno cercando di capire i medici. Si aspetta, si aspetta, si aspetta e si aspetta: alle 1:15 (di notte) mi viene detto che posso andare a casa e che il babbo sarà tenuto in osservazione per la notte.
Un'infermiera più gentile e paziente ci spiega che la procedura è “questa”, cioè aspettare fra un'analisi e l'altra, e che al Pronto Soccorso quel giorno avevano altri 87 pazienti.
L'indomani andiamo a riprendere il babbo e, finalmente, il neurologo ci dice che sono riusciti a escludere un paio di possibilità (ischemia ed epilessia) ma che, in pratica, non hanno capito di cosa si tratti e infatti definisce il tutto come un generico “deficit cognitivo dovuto all'operazione che si dovrebbe ridurre nei prossimi mesi” che a me, più di una diagnosi, sembra una constatazione venata di ottimismo (spero) giustificato.
Prima di esporre la mia riflessione devo ribadire che al Pronto Soccorso non è passata oltre mezza giornata senza accadere niente: al babbo hanno fatto moltissime analisi (cardiogramma, encefalogramma, ben due TAC, varie soluzioni saline e un angio-qualcosa). Capisco anche che quel giorno i pazienti erano statisticamente più del solito (così almeno mi ha fatto intendere l'infermiera), che comunque gli esami erano molti e le attese inevitabili. Ciò su cui ho da ridire è: 1. la pressoché totale mancanza di comunicazione su ciò che stava avvenendo; 2. che solo alle 1:15 di notte ci sia stato comunicato di andare pure a casa e di tornare l'indomani.
La mia critica va quindi alla procedura in cui tanta fiducia sembrava riporre l'infermiera con cui ho parlato. A mio avviso la procedura dovrebbe prevedere un'informazione continua (diciamo almeno ogni due ore?) su ciò che sta avvenendo e, stabilire il prima possibile se un paziente dovrà rimanere in osservazione per la notte. Questo perché, secondo me, l'ansia di paziente e parenti non è un fattore trascurabile e dovrebbe essere limitata il più possibile.
Ma di chi è la colpa? Anni fa scrissi dell'ufficio postale del mio paese dove gli impiegati, dietro la vetrata che li separa dai clienti, sembravano muoversi al rallentatore, come se fossero immersi in un acquario o si stessero esercitando in studiati movimenti zen...
Ecco, al reparto di cardiologia vascolare e al pronto soccorso gli infermieri non stavano mai fermi: era tutto un continuo correre da una parte all'altra. I medici si vedevano meno ma anche loro non sembravano perdere tempo e girarsi i pollici.
Il motivo, in realtà già lo sapevo, è che gli ospedali sono sistematicamente sotto organico: manca personale. Sicuramente infermieri e, probabilmente, anche dottori.
Il risultato è che il tempo che il personale può dedicare a ogni singolo malato è irrisorio.
Sono convinto che la procedura preveda già che pazienti e parenti vengano informati su ciò che sta succedendo ma quando non c'è tempo per fare tutto qualcosa deve saltare: e quindi si taglia ciò che è ritenuto “meno importante”. Nell'emergenza continua in cui sono costretti a barcamenarsi, si evita di dare ogni due ore un aggiornamento di dieci minuti a un paziente perché, dopo circa 12 ore, il “costo” di questa informazione sarebbe un'ora di lavoro (*1). Lo stesso vale per i dottori: io sono convinto che se avessi avuto la possibilità di spiegare approfonditamente i sintomi di mio padre avrei forse potuto dare delle informazioni che avrebbero potuto aiutare nella diagnosi. Invece no: anche loro sono sempre di corsa, chiedono solo quello che ritengono sia il minimo indispensabile perché probabilmente (suppongo) i quindici minuti in più di approfondimento sono generalmente meglio spesi per risolvere l'usuale emergenza.
La colpa non è quindi del personale medico ma della politica, in questo caso tossica perché uccide (*3), che toglie continuamente risorse alla sanità pubblica (*2) con lo scopo, più o meno recondito, di favorire la sanità privata rendendola competitiva come costi e tempi di attesa (*4). Non per niente nel resto del mondo, ma anche in Italia, la sanità privata è considerata uno dei business del nuovo millennio.
Il risultato di questa distorsione, di questo svilimento della sanità è che, oltre a togliere la dignità a chi lavora in essa di poter svolgere bene il proprio ruolo, l'ospedale diventa come una catena di montaggio. Si perde il contatto umano col paziente che diviene invece simile a un prodotto, sballottato da un reparto all'altro come se fosse in una catena di montaggio; e con i prodotti non di parla: il paziente è quindi disumanizzato e si cerca solo di arrivare il più velocemente possibile alla fine della procedura rispedendolo a casa con un timbro "FATTO" su un foglio di carta e qualche cicatrice in più sulla pelle: questo perché, proprio come in una fabbrica si cerca di produrre il più possibile, così la produttiva di un ospedale viene misurata come il numero di pazienti trattati nell'unità di tempo. Questo a prescindere dal benessere psicologico dei malati e dei loro parenti.
Proprio oggi con puntuale serendipità, dando un'occhiata a FB, mi sono imbattuto in questa frase:
«Se si cura una malattia, si vince o si perde; ma se si cura una persona, vi garantisco che si vince, si vince sempre, qualunque sia l'esito della terapia.» (Patch Adams)
Questa frase di Patch Adams condensa brillantemente in poche parole la mia stessa idea (basta sostituire “prodotti” con “malattie”). È proprio questo il punto: a causa dei tagli la sanità pubblica è costretta a concentrarsi esclusivamente sulle malattie perdendo di vista le persone. Il risultato è che la sanità si snatura e perde di vista il suo ruolo più profondo divenendo fine a se stessa:
«Il compito dei medici non è rinviare la morte, ma migliorare la qualità della vita.»
Conclusione: che altro aggiungere? Non so se Patch Adams sia un buon medico ma di sicuro è un genio di umanità.
Nota (*1): e probabilmente la famosa procedura prevede anche di informare tempestivamente se un paziente dovrà essere tenuto in osservazione: solo che in questo caso il problema sono i posti letto che mancano. Probabilmente alle 20:00 i medici già sapevano che, al 95% (percentuale messa a casaccio), non ci sarebbe stato tempo per dimettere mio padre in giornata ma si sperava comunque di non impegnare un posto letto e lasciarlo disponibile per eventuali altre emergenze. Nell'emergenza continua tenere in sospeso malato e famigliari per ore diventa la paradossale soluzione.
Nota (*2): che ricordiamolo non è gratuita, come vorrebbero farci credere i politici, ma è finanziata dalle tasse degli italiani. E questo senza parlare delle diverse gabelle (i vari ticket) infilate per ogni prestazione.
Nota (*3): di nuovo mi ritorna a mente la più che appropriata frase di Rudolf Virchow del 1848, «La medicina è una scienza sociale: la politica non è niente altro che medicina su larga scala» (v. La parabola di Hegsted)...
Nota (*4): è bene sottolineare che questo favorire la sanità privata a spese della pubblica non si traduce in un risparmio per le casse dello stato: ciò che salta è infatti la prevenzione. Chi non può permetterselo tende infatti a trascurare la malattia col risultato che, quando infine si aggrava, finisce all'ospedale con costi per la società molti più alti.
alla prima stazione
1 ora fa
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