[E] Per la comprensione completa di questo pezzo è utile la lettura della mia Epitome (V. 0.3.0). In particolare il capitolo 4.
L'altra settimana ho pubblicato il pezzo Lewis Bayly & Figli riservandomi poi di aggiungere le mie conclusioni in seguito. Un po' il mio articolo era cresciuto molto più del previsto e soprattutto, onestamente, non avevo voglia di scrivere oltre. Come al solito però ero ingenuamente ottimista: speravo infatti che altre persone riuscissero a cogliere il non scritto, ciò che mi aveva affascinato. Speravo che, seppure incompleto, il pezzo potesse dare vita a personali riflessioni costruttive (*1).
In realtà però i pochi lettori che ho potuto interpellare hanno trovato quel pezzo troppo lungo, privo di interesse e molto noioso: sicuramente non vi hanno intravisto ciò che speravo...
Cosa mi affascinava? Osservare l'influsso di sorte e fortuna nella vita degli appartenenti a questa famiglia nobile: non avevo nessun interesse specifico per i Bayly/Paget e, in realtà, speravo di potere trarre delle conclusioni generali.
Seconda versione: da qui in poi butto via quanto avevo scritto e riparto da capo. In pratica avevo iniziato a commentare ogni esponente della dinastia ma mi sono reso conto che non era né produttivo né interessante. Era un continuo ripetersi di “secondo me” non argomentati: come spiegato, in questo caso le mie valutazioni sono infatti parecchio arbitrarie perché si basano su pochissimi elementi magari neppure approfonditi sufficientemente.
Allora preferisco presentare qui di seguito una tabella in cui sono riassunti i miei giudizi (comunque arbitrari) e ragionare su questa.
Prima di entrare nel vivo devo ricordare che Wikipedia (da cui ho tratto tutte le informazioni) va presa sempre con le molle e che, come sempre del resto, le mie valutazioni sono piuttosto arbitrarie: per questi motivi il lettore deve mantenere il proprio senso critico costantemente in allerta.
Per semplificare i riferimenti ai singoli individui ho numerato i vari esponenti di questa dinastia e, così, mi riferirò spesso al loro numero invece che al nome (vista anche l'abbondanza di “Henry”).
La prima colonna interessante è quella della “Fortuna”. Con “Fortuna” intendo la sorte che favorì l'individuo, sia alla nascita, considerando le prospettive che nome e titolo comportavano, che durante la vita con, ad esempio, eredità inaspettate. È bene ripetere che queste mie valutazioni sono MOLTO arbitrarie e superficiali!
Nei due casi che ho giudicato di massima fortuna (ovvero “+++”) è stato anche guadagnato un titolo. Parimenti un titolo è stato ottenuto in altri due casi da individui che ho giudicato di massima capacità (ovvero “+++”): per il primo Bayly, quello religioso di vescovo; per il sesto Paget quello di marchese.
In altre parole, da questo punto di vista, fortuna e capacità sembrano equivalersi.
C'è da aggiungere però che il sesto Paget partiva da una fortuna superiore alla media (ovvero “+”) data dalla ricchezza e dal titolo che, probabilmente, lo favorì nell'ascesa iniziale nei gradi dell'esercito.
Inoltre per il primo Bayly non ho dati sufficienti per valutare la sua fortuna. Non sappiamo se la possibilità di frequentare l'università di Oxford fu dovuta a buona sorte, come ad esempio un eredità inaspettata oppure dall'essere notato da qualcuno in grado di fargli ottenere una borsa di studio o qualcosa del genere. Personalmente sospetto che la fortuna gli abbia dato almeno una piccola “spinta” iniziale ma, come detto, non ho elementi al riguardo.
Il settimo, ottavo e forse il nono Paget sono quelli a cui la nascita aveva forse fornito le carte migliori ma che non si dimostrarono all'altezza. Bisogna tenere anche presente che ebbero anche la fortuna di nascere nell'era d'oro dell'Inghilterra, il XIX secolo, e questo moltiplicava le opportunità a loro disposizione.
All'undicesimo Paget ho attribuito una fortuna notevole (ovvero “++”) perché ereditò il titolo dallo zio: non sono però sicuro dell'ampiezza di questa buona sorte visto che oltre al titolo ereditò anche i debiti e questo proprio all'alba di un'epoca in cui il denaro iniziava a valere molto più della nobiltà.
Interessante anche la colonna “Matrimonio”: qui, in maniera molto arbitraria, ho valutato se il matrimonio era all'altezza delle aspettative. In pratica però non ho fatto accurate ricerche sulle varie mogli e mi sono limitato a giudicare l'eventuale titolo nobiliare del padre della sposa. Soprattutto nel XX secolo sarebbe stato invece opportuno valutare la “ricchezza” invece che il titolo per giudicare cinicamente la “bontà” di un matrimonio ma questo non l'ho fatto: le mie valutazioni sui matrimoni del dodicesimo e tredicesimo Paget (e in misura minore anche quelli precedenti del XX secolo) sono quindi sostanzialmente irrilevanti.
Queste informazioni mi hanno fornito degli spunti di riflessione interessanti. Mi chiedevo ad esempio se non fornissero una chiave di lettura per il successo dell'aristocrazia. Dalla tabella si vede che i nuovi titoli sono attribuiti alle persone contemporaneamente fortunate e capaci: è plausibile pensare che i figli di questi nobili avessero, almeno in parte, le capacità del padre e quindi, se questo fosse stato valido per tutte le famiglie aristocratiche, allora i matrimoni fra nobili avrebbero potuto più facilmente passare queste caratteristiche positive alle generazioni successive? Dopotutto la decadenza della famiglia Paget diviene appariscente proprio quando i marchesi sposano donne plebee...
Ci ho riflettuto abbastanza e alla fine sono giunto alla conclusione che questa specie di “eugenetica inconsapevole” non è abbastanza efficace da garantire risultati significativi: il titolo passa al primogenito indipendentemente dalle sue capacità; troppe poche generazioni per avere risultati statisticamente rilevanti; incertezza sulla corrispondenza fra “meriti” e nuovi titoli; le distorsioni create dal fattore “denaro”...
Credo invece che l'importanza dei matrimoni endogamici all'aristocrazia avessero un altro merito: non genetico ma culturale. Entrambi i genitori nobili avrebbero forse potuto garantire più facilmente un'uniformità di valori e di educazione nei giovani rampolli. La “serietà” che mi è parsa di percepire nell'impegno che anche i vari Bayly/Paget meno dotati sembrano avere profuso nello svolgere i doveri che il loro titolo richiedeva stride visibilmente con l'individualismo del quinto marchese di Paget (quello che sperperò la fortuna di famiglia) non solo nato da madre non nobile ma anche allevato in Francia da una zia materna. Possibile che questo sfondo culturale abbia contribuito a formare la mentalità del quinto marchese portandolo a disinteressarsi degli affari di famiglia e, anzi, a disperderne la ricchezza? Io sono sicuro di sì...
Ovviamente da questi pochi (e superficiali) dati è impossibile, anzi errato, cercare di leggervi tendenze generali applicabili a tutta l'aristocrazia inglese. Il pericolo è infatti che io vi abbia visto ciò che volevo vederci o che mi aspettavo di vederci: che le mie valutazioni arbitrarie si siano conformate a uno schema che avevo, magari inconsciamente, già disegnato e/o intuito.
È possibilissimo...
Per esperienza so di avere una fiducia sconsiderata nelle mie intuizioni che, del resto, in genere si rivelano piuttosto accurate e veritiere e, solo raramente, totalmente errate.
Anche in questo caso ho fiducia nel mio intuito: inoltre le mie conclusioni odierne non sono particolarmente strabilianti ma, anzi, piuttosto banali.
1. Il sistema aristocratico inglese sembrava premiare gli individui più capaci. (*2)
2. Possibile importanza dell'uniformità culturale (principi, tradizioni, etc) nel garantire che i giovani nobili crescessero capaci di assumersi le responsabilità che il loro titolo comportava.
3. Di conseguenza al punto 2, l'importanza dei matrimoni fra nobili.
4. La buona sorte è comunque decisiva nel successo che il singolo individuo riesce a ottenere: a parità di potenziale umano le opportunità si moltiplicano per chi ha la buona sorte di nascere in una posizione favorita e, grazie alla migliore partenza, può giungere molto più lontano.
E non pensate che la moderna società occidentale sia troppo diversa: l'aristocrazia non è più un parapotere, ma i parapoteri ([E] 4.2) non sono scomparsi! Essi infatti sembrano connaturati con la società umana che, inevitabilmente, pare tendere a polarizzarsi, a formare gruppi diversi fra cui, quelli chiusi e autonomi ([E] 4.1), hanno più facilità a incrementare la loro forza (che nel mondo moderno tende a sovrapporsi alla ricchezza) a scapito della maggioranza ([E] 4.4).
Pensate che il percorso sociale dei rampolli degli odierni parapoteri sia lo stesso di ogni comune giovane? Pensate che il giovane Agnelli sia divenuto presidente della Juventus per le sue capacità o per il suo cognome?
Eppure anche il giovane Agnelli, come i nobili inglesi dei secoli passati, non mi pare troppo incapace: evidentemente l'aver avuto la possibilità di frequentare le scuole migliori lo ha formato in maniera tale da adempiere ai suoi compiti di presidente della Juventus in maniera più che dignitosa.
Ma non voglio divagare oltre: le analogie fra parapoteri antichi e moderni sono molto interessanti e, probabilmente, prima o poi ci tornerò sopra con un pezzo specifico o magari direttamente nella mia epitome...
Conclusione: un lavoro inutile quello di oggi e di qualche giorno fa? No, non credo: magari era meglio se avessi usato tutte queste ore per finire di leggere la raccolta di saggi sull'antica Roma (!) ma credo comunque che sia positivo anche indagare ciò che l'istinto e la curiosità ci suggeriscono. Non mi stupirei se in futuro dovessi ritornare sull'argomento con nuove e più profonde intuizioni...
Nota (*1): probabilmente ho sbagliato ad aggiungervi lo pseudo finale faceto: infatti ciò potrebbe aver confuso e distolto anche i lettori più ben disposti dalla seria riflessione che mi auspicavo...
Nota (*2): mi chiedo se ci sia un collegamento col fatto che, anche al giorno d'oggi, le società del nord Europa tendano a premiare il merito individuale più di quanto non si faccia, ad esempio, in Italia.
alla prima stazione
1 ora fa
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