[E] Per la comprensione completa di questo pezzo è utile la lettura della mia Epitome (V. 0.4.1 "Morrigan").
Tempo fa sono rimasto senza libro da “bagno” ritrovandomi quindi nell'esigenza di cercarne uno nuovo.
Idealmente vorrei un libro dai capitoli corti in maniera da poterlo leggere agevolmente in numerose ma brevi sedute: il problema è che altre “esigenze” non mi lasciano mai troppo tempo per scegliere e capire bene cosa ho sottomano...
Mi ritrovai così con Terra senza tempo di Peter Kolosimo, Arnoldo Mondadori Editore, 1974.
L'inizio mi parve molto promettente: spiegava come per decenni la scienza ufficiale si era rifiutata di valutare oggettivamente i numerosi indizi che indicavano come l'uomo moderno non avesse niente a che vedere con i Neanderthal e che quindi questi non fossero i nostri antenati.
Ancora all'epoca delle mie elementari sui libri di scuola era questa la versione che si studiava sulle origini dell'uomo moderno. Sempre dell'epoca della mia infanzia dovrei avere un vecchio libro, con dei disegni molto belli, sull'uomo primitivo e sono relativamente sicuro che anche lì vi sia un grafico che mostra l'uomo discendere dai Neanderthal. Magari lo cerco: potrei sbagliarmi...
Comunque solo pochi anni fa, grazie al corso in linea di Harari (v. W Harari!), appresi definitivamente che l'uomo moderno non discende dai Neanderthal col quale ha forse avuto solo degli sporadici accoppiamenti.
Insomma il ritrovare in Terra senza tempo un'acuta comprensione delle dinamiche all'interno del mondo scientifico grazie alle quali una teoria errata sopravviveva alle prove che la confutano mi sembrò indice di una consapevolezza, almeno inconscia, del paradosso dell'epoca ([E] 6): ovvero di come l'uomo sia vittima dei pregiudizi, delle convenzioni e delle convinzioni del proprio tempo.
La mia fiducia e il mio leggere con mente aperta le pagine di Terra senza tempo non fu però ripagata. Mi ritrovai infatti affogato in una marea di teorie strampalate e non scientifiche: basate spesso su vaghi indizi interpretabili in maniera molto più logica e semplice. Ad esempio: un capitano avventuriero americano scopre in Africa delle armi gigantesche che non potevano essere usate in battaglia: per l'autore questa è la prova dell'esistenza dei giganti; io invece avrei ipotizzato semplicemente che le armi avessero uno scopo solo rituale o cultuale.
Così sono riuscito a leggere qualche capitolo ma poi ho lasciato perdere: le teorie erano così assurde che le avrei considerate poco credibili anche come spunti per racconti di fantascienza.
Così ho scelto a caso un altro libro: L'armata a cavallo di Isaak Babel', Fabbri Editori, 1996, trad. Renato Poggioli.
Letto il nome dell'autore ho sbuffato di disappunto: i pochi testi russi che ho letto, anche se ben fatti, riescono sempre a deprimermi con le loro atmosfere opprimenti. E io per deprimermi non ho bisogno di aiuto: faccio da solo.
Comunque i capitoli erano molto corti: da mezza pagina a un massimo di sei pagine, con una media di due/tre paginette. E quindi ne ho iniziato comunque la lettura.
Si tratta in realtà di un buon libro: ovviamente deprimente ma anche piacevole e istruttivo.
È basato sull'esperienza diretta dell'autore come cavalleggero nell'armata a cavallo sovietica durante la guerra contro la Polonia del 1919-1921. L'autore non scrive le vicende della sua brigata seguendo un chiaro filo conduttore: invece si limita a fornire dei brevi quadretti basati sulle sue esperienze dirette o su racconti dei suoi commilitoni. Tanto che da quello che scrive è impossibile ricostruire l'andamento della guerra: e questo credo che sia voluto.
La guerra è solo lo sfondo delle vicende raccontate dall'autore che si concentra invece nel mostrare il microcosmo delle diverse personalità dei soldati e dei civili in cui si imbatte l'autore. Si ha la sensazione di un mondo impazzito in cui la logica della guerra è solo apparente: i vari personaggi (persone reali) hanno tutti le loro storie che non avrebbero niente a che fare con la guerra se la guerra non fosse piombata su di essi.
Poi ogni racconto fa storia a sé: come se tenesse un diario, ogni pezzo ha uno stile diverso, fortemente influenzato dall'umore dell'autore. Ad esempio uno dei primi racconti “Il sole d'Italia” trabocca di poesia: le immagini ricche di colore si susseguono una dopo l'altra e toccano anche un animo non particolarmente sensibile come il mio. Un altro racconto invece è (quasi) comico: in “Un tradimento”, in quattro pagine, sono riportate le lettere indignate di tre soldati russi provenienti dallo stesso paese, feriti in battaglia, poco istruiti ma comunisti convinti, che si ritrovano in un ospedale dove vengono trattati benissimo ma che a essi, per le sue comodità, pare tradire lo spirito della rivoluzione visto che gli altri soldati feriti vi si trovano così bene che non sembrano intenzionati a tornare a combattere. È paradossale, molto divertente, ma va letto per apprezzarlo pienamente.
E così i quadretti si susseguono uno dopo l'altro: la guerra non è più l'asettica azione militare ma diviene una serie di storie personali. La logica della strategia militare si perde nella prospettiva della singola brigata che vede solo lunghe marce, sporadiche scaramucce e varie ritirate in un mondo dove il soldato perde il senso di ciò che accade a lui e intorno a lui e si ritrova invece risucchiato nel tritacarne della storia.
Di tutto il libro ho evidenziato un unico passaggio che riporto qui di seguito. Si tratta dell'esortazione di un ufficiale per spronare i soldati a combattere in una situazione molto difficile: «- A Varsavia! - gridò Vorošilov, ed impennato il cavallo, s'involò nel cuore degli squadroni, - Ufficiali e soldati, - egli disse con passione, - a Mosca, nella vecchia capitale, combatte un regime inusitato. Il governo degli operai e dei contadini, il primo del mondo, vi ordina, ufficiali e soldati, d'attaccare il nemico e di riportar la vittoria.»
Io lo trovo un discorso involontariamente comico ma invece è capace di spronare e infondere coraggio agli uomini: questa è la forza di un mito!
Non di un protomito perché le sue funzioni fuorvianti ([E] 2.5) sono adesso evidenti: il governo sovietico non era composto né da operai né da contadini e, dopo i primi anni (decenni) di ideali vividi e fortemente creduti, iniziò a operare anche contro il loro interesse (per il rafforzarsi delle “condizioni di rappresentatività imperfetta”, v. [E] 5.6).
Personalmente trovo anche divertente l'ordine di vincere perché logicamente non dipende solo dalla volontà dei soldati sovietici: ho la sensazione però che queste incongruenze logiche appaiano abissali solo a me...
Conclusione: e oggi, la prossima volta che andrò in bagno, dovrò pescare a caso un nuovo libro. Metto però il veto sugli autori russi!
giovedì 11 gennaio 2018
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